Dante Society London

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Frammenti

“donne in un tempo apparentemente statico”
​

Progetto di scrittura al femminile ideato da Maria Cristina Picciolini e sostenuto dalla Dante Society London
“Frammenti” è una serie di racconti di vita che vivono da sé e parlano da sé, in questo momento così particolare che ci tiene a casa; un momento dove la mente viaggia e non si ferma e dunque chiede di reinventarsi un po’ e di scoprire, forse, altre cose di noi.

Ogni donna che parteciperà al progetto, si unirà ad altre, nella sua diversità e parteciperà alla costruzione di una grande famiglia umana che parlerà di noi, di chi ci circonda, di quello che abbiamo vissuto e vorremo vivere.

Il progetto è aperto a chi ama scrivere, a chi vuole mettersi alla prova e ha deciso finalmente di iniziare.
Il tema è libero, siamo tutti liberi. Potrete iniziare da una veduta di insieme, da un dettaglio, da un profumo, da uno sguardo.
Proviamo ad aprirci a noi e agli altri!

Qual è lo scopo di questa idea? L’obiettivo è quello di riuscire a raccogliere, tramite i vostri racconti, le sensazioni, le paure e le emozioni che ci attraversano in questo momento storico.

E adesso aprite un Word, scrivete e condividete con noi. Strada facendo, vedremo come si uniscono i vostri frammenti e come creare un mosaico con le tessere delle vostre parole.

Considerando la maggiore facilità di diffusione di un messaggio audiovisivo, su canale Youtube della Dante London, potete sostituirlo a quello scritto, inviandolo al seguente indirizzo: info@dantesocietylondon.com
Solo per i dattiloscritti: info@picciolini.de
Il nostro, s’intende, è solo un consiglio; siate libere nella scelta.

Potete inviare i file o i video entro il primo di Maggio.

Grazie per la vostra partecipazione ed entusiasmo
 
Team della Dante Society London

Barcellona  di Cristina Picciolini
 
Ci siamo fermati tesoro, semplicemente fermati di scatto. È stato un momento che abbiamo fotografato insieme, quando ero lì con te, e con tutti voi, giovani pieni di vita, di progetti, di parlare e sorrisi rivolti al futuro.  Poi una notizia, e dietro le altre. Un sussurro, un dubbio e il silenzio mi hanno travolta in maniera surreale, che di reale, c’era solo quel calice in alto che brindava alla vita e al nostro incontro. continua a leggere….
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La mia prima casa di Grazia Geiger

Resto anche io a casa.
Questa è la mia casa da adulta (la terza), e mi ricordo delle mie altre case.
Come è passato in fretta il tempo. E se guardo indietro la nostalgia mi prende. La mia casa da bambina, quella col balcone grande assolato, a Tripoli, dove con la corda i grandi mandavano giù il cestino del pane per ritirarlo in fretta col "filoncino" caldo. continua a leggere...
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Primo giorno di isolamento di Daniela Grondona

Loro, i miei gatti, continuano a ronfare, pompare su un cuscino di pail, correre come invasati di notte. Come se niente fosse. Li guardo mangiare, dormire a pancia in su e giocare. Per noi, invece, sta cambiando tutto. Ci piacerebbe avere, noi umani, un punto di riferimento. Un termine di confronto, da scovare nei nostri ricordi. continua a leggere...
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Velocità supersonica di Eugenia Tamburri
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Il viaggio più lungo che abbia mai fatto è quello senza tempo. In assenza di coordinate geografiche. La rabbia è morta, noi non la vogliamo più. Abbiamo desideri e desiderabilità. Le violenze verbali sono inaudite. continua a leggere...
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Presenza di Gallorini Maria-Vittoria

Oggi piove, ma non ho impegni, come ieri e come l’altro ieri. Sono passate oltre due settimane da quando ci hanno allertato ed esortato a stare in casa. Tutto tace, eccetto i miei pensieri. continua a leggere...
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Tengo qui il tuo ricordo di Daniela Scotto

​Sono qui che guardo dalla finestra verso la laguna che questa mattina appare calma e silenziosa. Non posso fare a meno di notare che rispecchia esattamente il contrario del mio stato d'animo, che si agita inquieto sotto l'apparenza di una falsa tranquillità. Non è l'apprensione per il momento difficile che tutto il mondo sta attraversando ma la ridda di ricordi che, nel momento di inattività, riempie la mia testa e non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo ad un visino delizioso, uno sguardo fiducioso che mi sembra di aver tradito. continua a leggere...
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Il tempo sospeso di Elettra de Salvo
 

I trenini della metropolitana che sulla Schönhauser Allee passano veloci ogni cinque minuti, da giorni hanno un’altra sonorità, un rumore di vagoni che sferragliano sulle rotaie in modo inconsueto. Ecco cos’é, sono vuoti, meno pesanti, e restituiscono suoni nuovi, mai sentiti. Resto in ascolto. continua a leggere...
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due frammenti
D.T. ovvero Disciplina Totale di Cinzia Colazzo
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I volontari cominciarono ad accorrere in ospedale. Dapprima uomini con figli, poi intellettuali sopra i cinquant'anni, e con il diffondersi delle nuove idee di salute pubblica sempre più maschi si decisero per il sacrificio. Ormai si doveva procedere per distretti, organizzare i volontari in fasce anagrafiche, sveltire le procedure e ridurre all'osso i protocolli. 
Meditazione di Cinzia Colazzo
 
Ieri sera avevo i brividi di freddo, come ogni sera da qualche tempo. Mi capita di accumulare paura e tensione collettiva durante la giornata, me ne accorgo solo quando resto sola con me stessa. continua a leggere i due frammenti...
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Le spalle di Salva

Le spalle dicono molto delle persone, forse quanto gli occhi anche  se si trovano dalla parte opposta del corpo. "Ci vogliono spalle larghe" diceva mia mamma "per portare tutti i pesi della vita". continua a leggere...
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Il rifugio della mia anima di Sara Farnocchia
 Nella parola casa, oggi come non mai, riscopriamo tutti un grande valore e significato. Quante doti ed aggettivi che sanno di buono potremmo attribuire a questa parola! rifugio, protezione, sicurezza, comodità, calore, tranquillità. continua a leggere...
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Puzzle temporali di Francesca Lombardi
 
Il silenzio assordante ci teneva compagnia in lunghe e interminabili giornate, pensieri, riflessioni, parole, lettere, messaggi, telefonate e contatti con persone che non si sentivano da tempo continua a leggere...
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Alla mia bambina e a me bambina  di Simona di Maio
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Passerà
Come passano le nuvole fuori la nostra finestra
Come passa questo pianto con un po' di dondolo e braccia e petto e carezza continua a leggere...
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Amore totale di Maria Luisa Macellaro

Vorrei essere una foglia leggera sui rami d'autunno...
Poter volare sulle ali del vento e
raggiungerti come una carezza,
ma sono una pietra,
scagliata contro la terra continua a leggere...
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Nel tempo sospeso di Eleonora Bellini, scrittrice

Tempo stopposo di Maria Carmela Micciché

vestita di indecisioni
giro da una stanza all'altra
cercando il bandolo
da dove iniziare
ad arrotolare il giorno continua a leggere...
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La forza magica del silenzio di Cecilia Gagliardi
 
Sei nato in Asia, chissà come e dove. Sei arrivato piano piano, senza far troppo rumore, quasi in punta di piedi con un sorrisetto soddisfatto sulle labbra.
Il sorrisetto un poco sadico di chi è convinto di poter vincere e di possedere il potere assoluto. Così piccolo e con un nome quasi grazioso ed allo stesso tempo regale, sei arrivato per sconvolgere gli esseri umani. continua a leggere... 
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Il canto della solitudine di Eloisa 

La solitudine è  un esperienza indispensabile d'incontro con se stessi, significa prendere la propria vita in mano e apre un varco per entrare in contatto con la nostra ricchezza interiore.
Io ho vissuto per 39 anni aggrappata ad un uomo (mio marito ) con cui condividevo; la vita intima, la vita sociale, la vita professionale e tutte le piccole cose del vissuto quotidiano. continua a leggere...
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Sogno o realtà di Chiara Cionco

Se c’è una cosa che mi ha sempre salvato, nei momenti difficili della mia vita, è l’immaginazione. Esatto, proprio lei, quella che per molto tempo ti fanno credere sia un difetto perché magari non ti fa concentrare a scuola. Quante volte avete sentito gli adulti rimproverare i più piccoli perché sempre con la testa fra le nuvole? continua a leggere...
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La mente viaggia e non si ferma…… di Silvia Alicandro

In questo tempo che si è fermato per tutti, in cui il silenzio e la solitudine avvolgono ogni persona e ogni cosa, la mia mente non può fare a meno di viaggiare per ritrovare nei ricordi le stesse sensazioni che si provano quando si naviga in mare aperto di notte o all’alba di un nuovo giorno.
Amo il mare più di ogni altra cosa. Ho bisogno del suo suono, del suo profumo, della sua profondità, del suo orizzonte, del suo colore sia in estate che in inverno. Ho bisogno di sentirmi abbracciata e travolta dalle sue onde e di solcarle con una barca a vela che porta i miei occhi e la mia mente a spaziare su orizzonti infiniti. continua a leggere...
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….e poi venne notte di Katiusha Santoro
....e poi venne notte, profonda, che ci mette in ascolto di noi stessi e sei costretto ad ascoltarti e a stare con te, senza confini. continua a leggere...
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Due poesie di Maria Lucia Riccioli
POESIA IN TEMPO DI PANDEMIA e URBI ET ORBI
continua a leggere...
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La Crisalide di Sabrina Merlini

Quando penso a come mi sento, mi sento bene.  Anche se gli spazi conosciuti e praticati da anni non riservano più alcuna sorpresa e il lento trascorrere delle giornate a volte mi accorcia il respiro per il tempo perduto. continua a leggere...
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Primavera rubata di Alessandra Bardi 
 
Sono tempi duri, molto duri.
Siamo te ed io insieme, come sempre, l'una il coraggio dell'altra. 
Abbiamo superato tanta paura. 
Si è abbattuta su di noi tanta pioggia. 
Ma noi sappiamo resistere alle intemperie. continua a leggere...
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Sono Perplessa di Mariagrazia Pelaia

Sinceramente il mio stile di vita non è granché cambiato, sono traduttrice, da anni sto tappata in casa, in questo momento poi per ironia della sorte traduco o meglio ritraduco per mio piacere poesie di Emily Dickinson, la cui autoreclusione ha fruttato risultati sublimi. continua a leggere...

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Profumi di infanzia di Daniela di Benedetto

Ci sono profumi che continuiamo a cercare tutta la vita e quando li ritroviamo ci regalano per un attimo la sensazione di essere a casa. Casa.
Ricordo quella volta, nel marzo di 14 anni fa: camminavo tra i viottoli impervi che percorrono la punta d’Africa piú protesa a sud. continua a leggere...
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La Fine di Un Tempo e La Sua Rosa di Giulia Aloia

Silenzio assordante, assenza; strade deserte, o con sirene spiegate di ambulanze e forze dell’ordine. Paura. Trambusto nelle case, nei luoghi di lavoro, negli ospedali, bombe ad orologeria negli ambienti sterili, pianto, solitudine, morte. continua a leggere...
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BARCELLONA 
 
Ci siamo fermati tesoro, semplicemente fermati di scatto. È stato un momento che abbiamo fotografato insieme, quando ero lì con te, e con tutti voi, giovani pieni di vita, di progetti, di parlare e sorrisi rivolti al futuro.  Poi una notizia, e dietro le altre. Un sussurro, un dubbio e il silenzio mi hanno travolta in maniera surreale, che di reale, c’era solo quel calice in alto che brindava alla vita e al nostro incontro.  Cancellai una reazione all’ansia che saliva, e appoggiai il mio sguardo ad un passante in bicicletta che andava verso il mare, in quella giornata piena di sole e di azzurro, ma colmo di ombre insidiose, nascoste all’apparenza e alla coscienza di chi vive, senza guardarsi indietro. Fu un attimo di svago da quelle notizie, poi, avrei voluto fermarle e sbatterle a terra, calpestarle con tutta me stessa, arrabbiata di quel grigiore che mi aveva invasa fino all’orlo della gola.  Ci voleva un rutto per espellere tutto quel sangue che saliva verso la testa e che mi avrebbe paralizzata in ogni espressione se non ti avessi guardata dritta negli occhi e avessi capito che tutto aveva un senso da qualche parte, come quel primo giorno, quando ti ho presa tra le mie braccia e ho sentito che tutto era possibile, anche quando il buio arriva e rimane a lungo.  Arrivai all’aeroporto, il 4 marzo. Trascinavo quella valigia che da anni viene a trovarti, carica di sensazioni di casa e di piccole novità che vanno ad aggiungersi al puzzle della tua vita, curiosa, colorata e conservatrice. Ti vidi da lontano, come ogni mamma che non ha mai perso di vista la sua guida e lo scopo della propria esistenza. In quella lontananza che negli anni consuma, diverte, incuriosisce, avvicina e costruisce tanti tipi di compromessi, tu mi vedesti, ma per primo fu il passo a farsi sentire, quello che ti ricordava il nostro correre, tu da piccola ed io da giovane mamma, ad acchiapparella, in cortile, mentre tu mi urlavi, non è giusto vinci sempre tu, ed io ti rispondevo tra le mie braccia, adesso sei mia! Quante corse e quanti arresti offre la vita per cadere e riprendere fiato e mai uno alla volta. Adesso già devo allontanarmi, di nuovo, e non so se lasciarti nell’illusione che tutto andrà bene o se devo affidarti al destino, e a quel vuoto che avanza e si fa grande nel suo silenzio, ma che farà nascere, una nuova te.
 
Maria Cristina Picciolini

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La mia prima casa

Resto anche io a casa. Questa è la mia casa da adulta (la terza), e mi ricordo delle mie altre case. Come è passato in fretta il tempo. E se guardo indietro la nostalgia mi prende. La mia casa da bambina, quella col balcone grande assolato, a Tripoli, dove con la corda i grandi mandavano giù il cestino del pane per ritirarlo in fretta col "filoncino" caldo. Altra case poi sempre là in quel Paese. Piene di voci e spezie, le finestre sempre aperte, il rumore degli zoccoli delle carrozzelle tirate dai cavalli sudati. Poi l'Italia, terra nuova, un'altra casa, con gli spazi diversi, abitudini mutate, odori delicati, ritmi più veloci. La famiglia, i fratelli piccoli, progetti tanti. La vita, gli anni, sono volati, come un film che nel giro di un'ora o due racchiude la storia di tanti personaggi. Molti anni sono passati tra lavoro e studio e famiglia insieme, mille attività, organizzare la vita e… E ora STOP. Perché ora mi prendo una PAUSA. Mi guardo intorno e penso in questi giorni lenti e comunque densi di sentimenti, alle mie vecchie case, ho il tempo di soffermare lo sguardo sulle foto, faccio ordine, e all'improvviso scopro che ho mille oggetti dimenticati nei cassetti. I vestiti restano appesi nell'armadio mentre la primavera un po' pallida si è già approssimata. Le scarpe quelle coi tacchi, le lascio al loro posto per quando uscirò e mi godrò il fuori, tra famiglia, amici, parenti e lavoro. Mi sveglio e a volte mi ricordo delle mie case.
​Dove sono ora? A casa mia, quella che racchiude, i suoni, ricordi, le storie più recenti. Il vociare dei miei bambini, ora adulti, i disegni, le loro stanze. La loro casa. Mi alleno fisicamente, tutti i giorni, come se andassi in palestra, mentre il mio trainer virtuale mi sprona al movimento, alle pause, alla respirazione, al jumping jack, e allo stretching. Mi trucco e mi vesto con cura, perché così sono abituata a fare e nulla, davvero nulla, potrà mettermi nella condizione di sciatteria. Faccio la piega e mantengo ordinati (nemmeno uno bianco ne voglio vedere) anche i miei capelli (coi prodotti ordinati via internet). La colazione è d'obbligo, con i biscottini fatti da me. Poi il pranzo e la cena, oltre agli spuntini che cadenzano la giornata, che passa molto veloce nonostante il nuovo ritmo, a cui mi sono ovviamente abituata. Giornate di coppia come non accadeva mai. Dopo tanta TV e telegiornali, ora ascolto la musica, Bob Marley (che tanto piaceva ai miei figli), e tutto quello che mi rimanda a movimento e allegria. Guardo i cartoons, scrivo, progetto, e mantengo alto l'umore. Poi la sera, quando non cantano più nemmeno gli uccellini e tutto diventa calmo, e il vento delle notizie e della natura si placa, mi strucco, e mi preparo per la notte, e rivolgo il pensiero a chi dorme per strada, a chi non ha cibo, a chi non può nemmeno restare a casa perché una casa non ce l'ha. E ritorno per consolarmi e con nostalgia a quella mia prima casa, passata nella mia vita così in fretta come in un sogno, col balcone assolato, l'orsacchiotto, il cestino del pane, il copriletto di lana colorato, tessuto a mano dai beduini, il pianoforte, il richiamo del muezzin, i miei genitori.
​
FB: Dott.ssa Grazia Geiger | graziageiger@gmail.com | IG: Dott.ssa Grazia 

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PRIMO GIORNO DI ISOLAMENTO

Loro, i miei gatti, continuano a ronfare, pompare su un cuscino di pail, correre come invasati di notte. Come se niente fosse. Li guardo mangiare, dormire a pancia in su e giocare. Per noi, invece, sta cambiando tutto. Ci piacerebbe avere, noi umani, un punto di riferimento. Un termine di confronto, da scovare nei nostri ricordi. Una lunga malattia, una quarantena piccola, insignificante, che avevamo dimenticato e che tornerebbe utile come un pezzo di pane raffermo quando il tuo panificio ha già abbassato le serrande. Noi impariamo dall’esperienza, se siamo accorti. E, allora, in questo momento vorremmo avere una minuta esperienza da cui attingere per accoccolarci in un caldo cuscino del conforto. E’ già accaduto, finirà così.
I rumori, in città, sono ovattati, ora. E’ bello, in qualche modo, camminare per strade silenti, senza traffico. E’ bello ma angosciante. Bibi, la mia canina, corre felice in piazza Indipendenza, le aiuole sono in parte recintate ma gli odori sono forti, un sentore di primavera sui praticelli appena tagliati e tra le tante tracce organiche dei suoi simili. Non sentivo questo silenzio da tempo immemore. L’unico ricordo che si affaccia è l’austerity. Bene, per fortuna, qualche ricordo confortante sta facendo capolino…..La mia generazione, i Sessantenni del boom economico e del lavoro facile da trovare, la ricorda con vaghezza. Avevamo tra i 10 e i 14 anni, bambini o preadolescenti di un mondo più semplice, il telefono, uno per casa, in salotto o in ingresso, niente Internet, una televisione che si era appena lasciata alle spalle il glorioso Carosello. Io personalmente aspettavo con ansia Braccobaldo Show, il pomeriggio. Ma quelle domeniche di silenzio non le ho dimenticate. O, per essere più precisi, il Coronavirus mi ha riportato là, allora. Il silenzio nelle strade. Lo stupore, il piacere e la preoccupazione insieme, sul volto delle persone. Gli adulti un pò corrucciati. Quel parlottare tra grandi - non sono cose di cui ti devi preoccupare, Danielina - tipico dell’epoca. A noi, non veniva spiegato nulla. Quando oggi si spiega tutto, per fortuna. O forse si spiega troppo. Non so più.
 
Daniela Grondona , Firenze marzo 2020

4

Velocità supersonica 
 
Il viaggio più lungo che abbia mai fatto è quello senza tempo. In assenza di coordinate geografiche. La rabbia è morta, noi non la vogliamo più. Abbiamo desideri e desiderabilità. Le violenze verbali sono inaudite. Anche se l’irruzione è di per sé violenta, l’ossessione del sovrumano addolcisce il mulino a vento che sale e ti entra dappertutto e ti fa girare forte perché ha una forza non controllabile, non ha il possesso di te ma da te è ossessionato. Noi siamo appassionati come le rose d’inverno e come le arance rosse che ti stringono in bocca e ti fermano il fiato. In silenzio tu piangi, ma poi ridi e mi fai sorridere ed io mi alzo, sposto la tenda apro la finestra. Dalla tua mano prendo la sigaretta accesa. La fumo un po’ poi tu mi raggiungi. La riprendi. La spegni. Mi prendi mi porti in cucina. Il fucsia del rododendro è l’unica luce nel grigio della tua cucina angusta. Ma non importa. Non importa perché io ti amo. La materia più vive in te che in me. Tutto è invisibile alla velocità più veloce della velocità del suono – il tuo, il mio. L’immobile spesso ha delle immagini mobili.  
 
 Eugenia Tamburri, musicista

 

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Presenza 


Oggi piove, ma non ho impegni, come ieri e come l’altro ieri. Sono passate oltre due settimane da quando ci hanno allertato ed esortato a stare in casa. Tutto tace, eccetto i miei pensieri. Guardo mio figlio che scruta dalla finestra la moto nuova parcheggiata sotto casa, tra una video lezione e l’altra, il mio compagno che cucina ed io, sfinita dalle pulizie domestiche, mi ritrovo a dare un senso alle giornate di attesa. Si, mi sento impotente nei confronti di tutto. Soprattutto di me stessa. Dopo ogni caduta, con sofferenza mi sono sempre rialzata, mi sono rammendata gli strappi e sono ripartita. Sono rinata più sicura, più forte, ma ora… Squilla il telefono ed un’amica mi chiede come sto, ci scambiamo opinioni, sensazioni e allora mi riprendo… Torno ad essere attiva, partecipe, viva. Lei si apre, mi racconta il suo disagio, le sue amarezze, il suo dolore. Percepisco brividi sulla mia pelle e la sento vicina. Ecco, ci sono e voglio esserci.


Di Gallorini Maria-Vittoria

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TENGO QUI IL TUO RICORDO
 
Sono qui che guardo dalla finestra verso la laguna che questa mattina appare calma e silenziosa. Non posso fare a meno di notare che rispecchia esattamente il contrario del mio stato d'animo, che si agita inquieto sotto l'apparenza di una falsa tranquillità. Non è l'apprensione per il momento difficile che tutto il mondo sta attraversando ma la ridda di ricordi che, nel momento di inattività, riempie la mia testa e non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo ad un visino delizioso, uno sguardo fiducioso che mi sembra di aver tradito. Ora che siamo tutti costretti a casa ed osservo la mia famiglia barcamenarsi per convivere in armonia e trascorrere i giorni di clausura  che restano non posso fare a meno di pensare che sarebbe potuto essere con noi anche lui. Ed ecco che in un attimo sono nel 1995. Era dalla mattina che sentivo qualche strano dolore alla pancia e, visto che avevo finito il tempo, non mi preoccupavo molto, non fino a quando un getto tiepido mi bagnò i pantaloni e mi accorsi che mi si erano rotte le acque; mio marito si agitò più di me che invece accolsi con sollievo quello che attendevo da nove mesi: presto avrei conosciuto il mio primo figlio. Ricordo l'ansia gioiosa che ci accompagnò in ospedale e la nottata di travaglio che finì con un cesareo perché il piccolo non riusciva ad uscire ma, nonostante il dolore e la preoccupazione, tutto scomparve quando vidi Lui. Piccolo, meraviglioso e tenero, unico e identico a me. Il resto fu un turbinio di emozioni, la gioia delle nostre famiglie, l'orgoglio di mia nonna che diventava bisnonna e quattro giorni di felicità durante i quali la preoccupazione più pressante era la quantità di latte che riuscivo a produrre fino a quando tutto ci è crollato addosso. Sangue nelle urine, la corsa a Siena, i punti strappati e ricuciti con graffette, dormire fuori dalla rianimazione pediatrica su una sdraio di emergenza mentre senti tuo figlio che fatica a respirare e non te lo fanno vedere. Poi la diagnosi di un evento che accade una volta su diecimila casi, i tentativi dei medici e la consapevolezza che le speranze sono poche e che tra poco quella meraviglia, quell'esserino che poco prima ti guardava fiducioso potrebbe scomparire e che tutto sia stato un sogno. L'uomo per natura tende a sperare anche se tutto intorno dice che è vano, e così continuai a pensare che in fondo i miracoli possono accadere finché invece il peggio arrivò e in pochi momenti non ero più madre, ma un grumo di dolore, rabbia e impotenza che non riusciva neanche a piangere in modo normale ma solo a gridare verso un cielo che era diventato nero. Da lì il baratro e l'angoscia e soprattutto la ricerca di una motivazione, la risposta a un “perchè
proprio a lui” che nessuno ha saputo dare nonostante gli esami, le indagini a cui ci siamo sottoposti io e mio marito. A distanza di tanti anni ancora una spiegazione non è stata trovata e sinceramente non mi è mai interessato molto perché l’unica cosa importante per me era che lui non ci fosse più. È stata dura, ci siamo risollevati grazie all’amore reciproco e all’affetto delle nostre famiglie e, quando finalmente è nata nostra figlia, seppur con una gravidanza funestata da paure e angosce, siamo tornati a vivere ma mai abbiamo dimenticato. Adesso, mentre guardo la laguna e le mie figlie che chiacchierano fra loro con complicità, non posso fare a meno, come ogni volta che la famiglia fa qualcosa insieme, di immaginare il mio piccolo divenuto giovane uomo, qui con noi, magari a litigare con le sue sorelle, a sfiorarmi con una carezza o a sonnecchiare sul divano. Una cosa è certa; fa parte di noi e avrà sempre il suo posto nel mio cuore di mamma.
 
Daniela Scotto, insegnante

7

Il tempo sospeso
 
I trenini della metropolitana che sulla Schönhauser Allee passano veloci ogni cinque minuti, da giorni hanno un’altra sonorità, un rumore di vagoni che sferragliano sulle rotaie in modo inconsueto. Ecco cos’é, sono vuoti, meno pesanti, e restituiscono suoni nuovi, mai sentiti. Resto in ascolto.
Oggi, dopo tanto tempo, mi sono messa il rossetto, e il profumo, il mio solito. Ma non debbo uscire, non ho bisogno di uscire, anche se qui a Berlino potrei. No, non vado, oggi non vado. E nemmeno aspetto qualcuno. Quali visite? Nemmeno quelle sul pianerottolo, quando mi portano la spesa i dolci vicini. Si fermano con la busta sulla soglia, io, da lontano li fotografo. Poi se hanno tempo, si siedono sui gradini delle scale, io prendo una sedia e mi posiziono a distanza di sicurezza. Con uno di loro ieri mi sono intrattenuta più di un’ora. Mi parlava del lavoro perso, di un amore in bilico, di solitudine. Il rossetto l’avevo messo per lui, così, solo per allegria, o per mantenere la consueta maschera con cui ci si presenta all’esterno. Ma oggi no, oggi il rossetto, quello rosso papavero, lo metto per me. Per rifare quel gesto che non facevo da settimane, per sorridermi allo specchio ricordandomi sensualità, seduzione, o semplice gioia di essere donna al mondo. Anche il profumo
aveva lo stesso scopo, compiere di nuovo quel gesto, gli interni dei polsi, gli angolini dietro le orecchie. Godere di nuovo di quelle essenze di mughetto, di gelsomino, che preludevano ad un incontro imminente. Chissà quando qualcuno calerá di nuovo il suo viso per cogliere il profumo dietro alla mia nuca che si mescola con quello della mia pelle. Attendo. Attendo con la curiosità, e senza sofferenza alcuna, di una bambina che attende i regali e i premi dopo un anno di buoni risultati e di buon comportamento. Vorrei rimanere di più in questo tempo sospeso, vorrei conservarlo e con esso recuperare le cose che vanno preservate, protette da una becera modernità fine a se stessa che imperterrita non si ferma davanti a nulla. Oh, certo, che dramma se non fossimo tutti collegati virtualmente con qualcuno o qualcosa. Che consolazione, che conforto poter correre all’impazzata e navigare nei mari delle connections di ogni genere. Ora però una forza sconosciuta più grande di noi ci ha colti impreparati, ha imposto un arresto che nessun algoritmo aveva previsto, nessun astuto calcolo preventivo ci aveva avvertiti di ciò. Ecco le sicurezze fittizie, effimere, fragili, crollarci addosso.
Dicono che il mondo non sarà più quello di prima, vorrei che chi lo sostiene avesse ragione, invece credo che tornerà più aggressivo di prima.  Li vedo già, loro, aspettare impazienti, scalciare nelle reciproche posizioni di partenza, contare le settimane i giorni i minuti fino al ritorno dell’altro tempo, di quel tempo „normale“, li vedo tornare tutti, i pescecani, gli squali, le cavallette, gli sciacalli, usciranno dalle loro tane più forti di prima, e non perderanno tempo, anzi vorranno recuperarlo al più presto. Lo spread perduto, la spending review, l’indice in borsa al ribasso, il prezzo del petrolio crollato, il pil fermo sotto lo zero virgola, la poltrona da mantenere o riconquistare, tanti compiti da fare, e alla svelta.   So invece che mi commuoverò nel rivedere la strada accanto, il parco ora chiuso che perlomeno posso ammirare dal balcone. Mi commuoverò quando potrò rivedere le montagne, i boschi, i laghi, l’acqua. Quando rivedrò il mare! Mi metterò un vestito leggero, il mio preferito, e dimenticherò tutti questi indumenti ancora invernali che mi guardano increduli dagli appendiabiti, chiedendomi perché non tocca a loro oggi l’uscita in città intorno al mio corpo: il pantalone preferito per tutte le occasioni, il tubino per i ricevimenti in ambasciata, l’abito lungo per andare in scena, quegli stivaletti che mi facevano sentire tanto affascinante, corpo e anima. I miei orecchini preferiti invece li metto sempre, anche quando vado solo a fare il giro del palazzo.  E’ interessante e anche buffa la prossemica con cui ci muoviamo per ora per strada. E’ una coreografia che predilige le diagonali e gli angoli retti, una coreografia che mi piacerebbe costruire
con dei danzatori, dando loro come regola prima il rispetto della distanza di un metro e mezzo, qualsiasi sia l’ampiezza del palco.
 
ll cibo che mi portano gli amici e i vicini così generosi e disponibili é diverso da quello che compro di solito, altri prodotti altre marche, altre provenienze, ma tutto questo mi diverte: gli spinaci invece della bieta, la „mortadella“ tedesca invece di quella italiana. Quanto mi incuriosisce tutto questo, cambiare abitudini, scoprire che non mi annoia pulire gli spinaci come ho sempre pensato, per poi cucinarli deliziosamente, che la Mortadella-Wurst é buona quasi come la nostra con i pistacchi......e godo piena di gratitudine verso i miei vicini dei gusti nuovi, o anche di altri ritrovati...solo i quattro kiwi portati dai dirimpettai tedeschi non saranno pronti nemmeno quando la crisi sarà passata, tanto erano...poco maturi. Ma li ringrazio per tutto quello che mi fanno avere e mi sdebito con dolci, con informazioni e consigli che mi chiedono, ma soprattutto di salviette disinfettanti di cui ho fatto incetta prima che sparissero. A me in casa servono poco. Godere del cibo. 
 
Godere. E l’amore, e l’eros ai tempi del contagio? Io persona sola, single felice, mi dico che ognuno deve provvedere come può, con gioia, con responsabilità e senza sensi di colpa, soprattutto le
donne, anzi é il momento di tirare fuori per esempio l’etera in noi, la conquistatrice giocosa, la femmina libera ma raffinata, o anche no, solo naturalmente libera, massimamente libera, senza vergogna, anzi ancora più libera di esprimere le sue oscenità. O possiamo semplicemente pensare alla seduzione, con impegno, con dedizione, passare un tempo erotico, ognuna come le va, direbbe Lucio Dalla. Ci sono molti modi ormai, alcuni antichissimi e altri molto recenti, con cui non dobbiamo rinunciare al desiderio, al godimento, é energia creativa, sia sublimata in occupazioni artistiche che direttamente vissuta sul proprio corpo. Ripasso questa lezione tutti i giorni, ricordandolo alle mie amiche. Una pandemia deve disinibirci nei sentimenti, ma anche nelle sensazioni primordiali di esseri umani femminili.
 
So di partire avvantaggiata in generale rispetto al tempo distopico che ci é cascato addosso, così, improvvisamente. Ho sempre giocato da sola, sin da bambina, e in seguito da adulta, felicemente, anche in teatro, spesso solista. Anche se amo essere tra la gente, con gli amici. Amo mangiare, bere, ballare, oh sì ballare.  In questi giorni ballo da sola, d’improvviso, al suono della radio, una musica qualsiasi che di colpo mi sale su, dai piedi mi entra nelle viscere, nel bacino nei fianchi. E in cucina, magari con il coltello in mano e una patata nell’altra, inizio a saltare. Poi altre volte mi metto proprio in scena: so allora che in cucina si é riunito il mio pubblico a cui mi offro. Mi scoprivo a farlo ogni tanto anche prima della crisi, in casa da sola, quant’é vero che sono un’attrice. Ogni volta mi scappa tanto da ridere e mi mette di buon umore.
 
Questo periodo che sa di apocalittico onestamente non mi abbatte, mi preoccupa e rattrista di certo, troppe brutte cifre, cifre impressionanti di contagi, di perdite. Evento biblico, sentivo dire in televisione. Ma sopratutto, stranamente, mi esalta, sono in una insolita „pacata euforia“ per questa stagione sospesa e surreale che non fa altro che confermarmi quello che anch’io come altri pensavo da tempo: il mondo così é marcio, qualcosa di fortissimo prima o poi accadrà che irromperà con prepotenza inaudita, stravolgerà gli schemi così consolidati, fará esplodere con grande fragore le strutture di base del sistema mondo su cui si regge questa nostra fragile e arrogante umanità. Temevo che sarebbe arrivato il grande boato, ma mai avrei potuto immaginarlo in questa forma. 
 
Felice di vivere ancora più concretamente in questo momento una frase di Franz Kafka che da anni mi accompagna: „Non hai bisogno di uscire di casa. Rimani al tuo tavolo, in ascolto. Non ascoltare nemmeno, resta solo in attesa. Non attendere nemmeno, stai solo e in silenzio. Si offrirà a te il mondo per svelarsi. Non
può fare altrimenti. Estasiato si rotolerà ai tuoi piedi.“   

Elettra de Salvo, Berlino, 31 marzo 2020
 
Copyright: Elettra de Salvo Si autorizza la pubblicazione online del presente testo esclusivamente nel sito della Dante Alighieri e agli scopi che sono stati comunicati relativamente a questa iniziativa di Cristina Picciolini in collaborazione con la Dante Alighieri di Londra. Non se ne autorizza solo l’uso parziale o frazionato, senza indicarne la fonte. Per ogni altra fruizione del medesimo in qualsiasi altro contesto o sito, anche privato, diverso da quello di cui sopra, é necessario chiedere di volta in volta l’autorizzazione all’autrice. Grazie.

8

Meditazione ​di Cinzia Colazzo
 
Ieri sera avevo i brividi di freddo, come ogni sera da qualche tempo. Mi capita di accumulare paura e tensione collettiva durante la giornata, me ne accorgo solo quando resto sola con me stessa. Ieri sera mi sono fatta un tè speziato, che scalda particolarmente, e mi sono messa a letto a meditare. Il freddo nella schiena, nel bacino, i brividi. Erano brividi profondi, come un mantra, non scosse da febbre: sto benissimo.  A cosa mi fa pensare un'onda di freddo? Alla morte. Allora in meditazione, al buio, ho parlato con la Morte, ho cercato di dialogare. Perché vieni ad onde, cosa ci vuoi dire? E subito ho percepito che la Morte era triste: una grande tristezza mi ha invasa. Perché sei triste?, le ho chiesto. E ho sentito che la Morte è stata ferita e offesa. Dopo aver visto questo, i brividi si sono dissolti. 
 
La Morte è offesa con noi e ci manifesta il suo disappunto, la sua delusione. Non sono riuscita a capire come l'abbiamo offesa. Forse perché l'abbiamo dimenticata, rinnegata? Mi chiedo se non dovremmo fare qualche rito di riconciliazione con la Morte, tipo una sua celebrazione, reintegrandola nella nostra coscienza collettiva. Suona troppo pagano?  Forse basterebbe dirle: "Io ti vedo". Anziché riempirci il corpo di paura, negando la Morte, forse potremmo dirle: "Io ti vedo, e ti rispetto".

 Della Disciplina Totale di Cinzia Colazzo

I volontari cominciarono ad accorrere in ospedale. Dapprima uomini con figli, poi intellettuali sopra i cinquant'anni, e con il diffondersi delle nuove idee di salute pubblica sempre più maschi si decisero per il sacrificio. Ormai si doveva procedere per distretti, organizzare i volontari in fasce anagrafiche, sveltire le procedure e ridurre all'osso i protocolli. 
La propaganda era stata avviata con molto tatto. Il primo scienziato a pronunciare le nuove parole aveva appena sussurrato, balbettato. Ma una volta dette, le parole erano entrate nelle teste e vi erano germogliate. Ovunque erano spuntate iniziative per il sì, per il sacrificio collettivo; comitati erano sorti nelle campagne più isolate laddove i giornali non venivano letti; figure di spicco avevano abbracciato il progetto per promulgare il codice morale della DT, Disciplina Totale, dopo che le ultime rimostranze erano cadute.
Proprio i più anziani vi si erano opposti con maggiore veemenza, difendendo il loro diritto a uno sguardo più lungo.
Le donne scoprirono un nuovo campo di emancipazione, con l'ipotesi di uno azzeramento della colonizzazione maschile del loro corpo.
Ottenere il consenso universale e vincere le sacche di resistenza, stanare i disertori ed educarli alla legge morale risultarono i compiti più spigolosi. Nuove strategie di intelligence e propoganda furono messe a punto: il piano di Disciplina Totale doveva essere assorbito su base volontaria, con l'aiuto della forza.

Il piano consisteva nell'estinzione di massa del genere umano attraverso l'orchiectomia estesa: la castrazione dei maschi.
Era stato preceduto da due disastri mondiali che avevano istillato nelle coscienze una profonda angoscia. Non era stata la soglia di Massa Critica a fare scattare il piano, ma la rottura di un meccanismo interno: si era rotta la molla della felicità, che sino ad allora aveva sospinto gli umani a muoversi, consumare, trasformare, acquisire, riprodursi. Dopo i due disastri globali era risultato sempre più difficile reggere il futuro, ognuno stava nel mondo come un ebete pascolante, occupato con il consumo del pasto. Questa rottura aveva avuto la portata di un reset del programma: nell'animo umano era proprio sparita la traccia della gioia. 
Poco prima delle sciagure abbattutesi sulle società civili, la popolazione mondiale aveva avuto un picco di crescita, raggiungendo la quota di dieci miliardi.
Scienziati e studiosi avevano emesso giorno dopo giorno grida d'allarme sempre più acute e sventolato simulazioni in base all'analisi dei dati sull'imminente punto di non ritorno. Il pianeta non avrebbe retto. Anche dopo la scomparsa delle civiltà più evolute, la Terra avrebbe impiegato decine di migliaia di anni per rigenerarsi e cancellare le tracce del passaggio umano. Molto lentamente ma con risolutezza le piante originarie avrebbero riconquistato il posto sottratto loro da coltivazioni e deforestazioni: ma ci sarebbero voluti secoli. Nonostante le scorie radioattive delle diverse sciagure nucleari, la vita avrebbe cominciato a insinuarsi negli interstizi della distruzione, e nonostante l'anidride carbonica, i fosfati, le diossine, il saccheggio di pesci e il mare di sacchetti di plastica, gli oceani avrebbero ripreso a respirare e a rigenerare i fondali: ma ci sarebbero voluti millenni.
Il quadro era chiaro: il pianeta non avrebbe retto a lungo e anche dopo la scomparsa del genere umano lunga sarebbe stata la degenza prima di veder sbocciare un nuovo inizio. Che cosa stavano aspettando gli uomini: un diluvio che li travolgesse orrendamente? Una morte lenta per mancanza di acqua potabile? Una guerra mondiale sulle ultime risorse?

Da questo scenario si era mossa la riflessione del volontario numero uno: lo scienziato che aveva ammesso di essersi fatto operare per diventare sterile e contribuire a fermare la riproduzione del genere umano. Poi quasi in sordina aveva chiosato: Del resto, se ogni maschio facesse questo piccolo intervento, risolveremmo d'un colpo tutti i nostri problemi, puliremmo la nostra coscienza, lasceremmo in pace il pianeta e potremmo pure goderci la vita sapendo di aver salvato il genere umano da un destino orribile. 
Queste poche parole erano suonate come un appello. Perché no, perché no?, si cominciò a dire. Ma ecco come si schierarono le varie parti sociali.
I maschi dai 18 ai 30 anni aderirono con uno spirito fra il goliardico e lo scolastico. In fondo non sembrava un provvedimento così definitivo, da lì a dieci anni si sarebbe potuto fare marcia indietro e rimettere le cose al proprio posto. La vita sarebbe andata avanti e si sarebbe potuto godere della giovinezza senza effetti collaterali - e se l'operazione avesse comportato un abbassamento del desiderio, tanto meglio.
Le femmine dai 18 ai 30 ebbero gli stessi pensieri. 
Le femmine dai 30 in su senza figli piansero tutte le lacrime che avevano in corpo: per loro fu come donare l'oro al fronte, la gemma più preziosa.
I comitati per la difesa della vita organizzarono per protesta incatenamenti collettivi davanti ai reparti di urologia.
I comitati per la difesa dell'ambiente stamparono, su carta riciclata, pamphlet a difesa del nuovo ordine mondiale, divulgarono pubblicità progresso con testimonial scelti dalle liste dei castrati, puntarono sul nuovo eroe, l'uomo comune, che finalmente poteva salvare il mondo pur non avendo gli attributi.
Gli anziani, come detto, vi si opposero: infatti, se non potevano sperare nel dopo, che senso aveva trascinarsi sulle ossa doloranti per altri dieci, vent'anni?
Alla fine vinse il sì. E successe un fatto inaudito.
I potenti del pianeta, quelli che avevano saccheggiato, speculato, manipolato, occultato, derubato, trapanato, inquinato, devastato, contaminato, intensificato la produzione per profitto, copulato per sottomissione, corrotto per omissione, bombardato per intimidazione, questi malfattori dell'umanità accusarono uno shock psicologo, un blackout cognitivo, o un colpo basso, che dir si voglia, e smisero di delinquere. Che cosa mai prese loro? La spiegazione si rivelò semplice: mancando un'intera generazione da derubare, un'intera filiera della competizione, che scopo aveva l'arraffare? Se il re non poteva sottrarre la successione al figlio e il figlio non poteva buttare giù dal trono il padre, che senso aveva ancora affermare la propria potenza? Alla fine si fecero castrare pure loro e con una parte dei propri beni si assicurarono giardini privati nella foresta Amazzonica (con l'altra acquistarono in prevendita un biglietto per Marte).
Ma i bambini maschi? Chi decise per loro? Le commissioni mediche misero a punto un protocollo di igiene pubblica: a quindici anni tutti i figli maschi dovevano essere sottoposti all'operazione. Per le madri fu peggio che mandarli al fronte: dovettero smettere di cullare l'idea di diventare nonne. 

Dopo i primi cinque anni di applicazione della DT, un altro fatto insolito accadde: l'umanità smise di consumare. Dissoltasi l'iniziale euforia di fronte alla possibilità di abbuffarsi di risorse pubbliche e private senza pensieri sul domani, cadde vertiginosamente l'indice di desiderio individuale: nessuno aveva più voglia di vestirsi bene, andare a mangiare fuori, prendere lezioni di ballo, comprare una casa in montagna, mettere i pannelli solari, aprire una nuova scuola di quartiere, laurearsi. A che scopo tutto quello sforzo di ottimizzazione e automiglioramento, se nel giro di novant'anni non ci sarebbe più stato un bambino sulla Terra? Per chi sostenere tutta quell'enorme fatica del vivere? Atlante si piegò in ginocchio.

Alla fine l'umanità si salvò. Dopo un intero quindicennio di DT (il tempo di lasciar maturare gli ultimi nati), un altro scienziato osò levare la voce e mormorare parole di pietas. Anzi, una sola parola: Fermatevi. In effetti dal mondo civilizzato, attrezzato di stanatori elettronici (rilevatori di diserzione tramite chip, tracciamenti e droni), erano rimasti esclusi solo i maschi delle remote tribù simil-primitive, che si sarebbero potute individuare con dispositivi satellitari e sterilizzare collettivamente con un indicibile atto di aggressione. 
Si decise dunque di non procedere. Fermatevi: l'appello ebbe la meglio. Lasciate ai più primitivi compito e privilegio di moltiplicarsi. Forse loro non saranno così ciechi e sordidi. Salvate l'umanità. Che importa se uscirà fuori nera o gialla. Guadagnate tempo, fate terra bruciata ma lasciatevi semi in quiescenza. E intanto occupatevi gli uni degli altri, ché voi siete gli ultimi e nessuna nuova generazione verrà a tenere puliti gli ospizi e a darvi un'occupazione negli asili. 
 Cominciò allora un monumentale lavoro di documentazione. Un fervore nuovo pervase i popoli. Adesso si aveva un "altro" a cui rivolgere gli sforzi, qualcuno per cui darsi la pena di un lascito onorevole o per lo meno non oneroso: la nuova umanità. Fu un proliferare di riedizioni enciclopediche, donazioni di collezioni d'arte ai musei, restauri di monumenti, riconversione delle industrie più inquinanti, raccolta dati e sotterramento di tesori di famiglia. La diaristica esplose come genere. La letteratura epistolare ebbe come incipit usuale: "Cara nuova Umanità,". L'umano riscopriva l'umano, che senza futuro non sapeva più né depredare, né amare.

9

Le spalle 
 
Le spalle dicono molto delle persone, forse quanto gli occhi anche  se si trovano dalla parte opposta del corpo. "Ci vogliono spalle larghe" diceva mia mamma "per portare tutti i pesi della vita". A volte ci sembra di non poter riuscirci e malgrado si pensi "NON POSSO FARCI NIENTE" ci carichiamo sempre di più fino a sfinirci. Cosa c'entra tutto questo con quello che stiamo vivendo oggi? Oggi sembra, almeno a me, di poter dire finalmente "NON POSSO FARCI NIENTE". Sì, qualcuno mi ha bloccata, mi ha chiuso dentro e io non posso vedere, non posso far finta di poter fare qualcosa per qualcuno. Fuggo anche il pensiero di qualcosa che mi vorrebbe presente e vorrebbe farmi vedere. Io non vedo. Non vedo il male, non vedo gli occhi di chi chiede e vorrebbe risposte da me che "NON POSSO FARCI NIENTE". Queste sensazioni mi lasciano stupita e attonita quasi assente forse perché questa non è la vita. La vita è quella che ti stanca, ti curva le spalle,  ti fa sorridere gli occhi e quella che ti fa dire a te e agli altri "tranquilla troverai la forza" anche se in fondo al cuore dirai sempre "NON POSSO FARCI NIENTE". La vita è quella che ti chiama e ti dice "raddrizza le spalle che ancora sono forti e possono sostenere il mondo”. 

di Salva

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IL RIFUGIO DELLA MIA ANIMA 
 
 
Nella parola casa, oggi come non mai, riscopriamo tutti un grande valore e significato. Quante doti ed aggettivi che sanno di buono potremmo attribuire a questa parola! rifugio, protezione, sicurezza, comodità, calore, tranquillità….. Ma chissà quante sono le persone che invece, costrette a questa quarantena, fanno tante “storie” e lamentele per non poter uscire da questo guscio che oggi risulta essere l’unico rimedio efficace al virus, e altre, magari spaventate, in preda alle fobie, si rintanano e si chiudono con le loro angosce senza fare niente. Ma tra due misure come l’irresponsabilità e il panico deve esserci il “sano timore” che ci spinge ad agire e a non essere passivi a tutto ciò che in questo momento ci viene propinato. Indubbiamente ciò che mi manca molto è la “libertà”, una parola che per noi donne ha un valore immenso legato a battaglie e conquiste, ma che oggi va vista sotto un altro aspetto ben diverso dalla privazione. Il non poter scegliere di fare ciò che vogliamo, e di cui avremmo bisogno in un qualsiasi momento, è soltanto una richiesta momentanea, un patto collettivo per poter recuperare quel diritto che tanto amiamo e ci ha reso autonomi.  Pertanto lo stare a casa non deve essere visto come una rinuncia, ma come un’attesa per un bene. E’ vero che a differenza dei tempi passati, gli impegni di lavoro e i nostri stili di vita attuali, relativamente moderni, ci portano a vivere molto tempo fuori dalla nostra casa e se oggi ci troviamo a dover sacrificare questi impegni, sappiamo bene come utilizzare il tempo ritrovato, in fin dei conti noi donne siamo sempre state associate alle custodi del focolare domestico e le nostre incombenze nell’ambito delle sue mura sono numerose. Personalmente vivo questa segregazione casalinga serenamente dato che trovo un’inclinazione affettiva e inconscia per la chiocciola (beata lei) che ha sempre la casa sulle spalle! Le appassionate di astrologia lo attribuiscono ad una caratteristica del mio segno zodiacale: il cancro, ma qualunque sia il motivo, non ha importanza, io so che nel corso degli anni l’ho fornita di tutto ciò che mi è necessario, che mi accoglie sempre ed il valore del mio apprezzamento per lei aumenta in particolare modo quando sono stanca, o dopo una

 
 lunga giornata di lavoro iniziata all’alba e trascorsa molto lontana da lei. L’espressione noia all’interno delle nostre case non deve esistere in questo momento! Resilienza è la parola che deve tenerci attive e positive. Come sicuramente tante altre donne, sto impegnando il tempo a frugare e riordinare tra armadi e vecchie scatole; ne vengono fuori non soltanto oggetti dimenticati ma anche vecchi ricordi e pensieri che ho avuto l’impressione mi attirassero come una calamita, trascinandomi verso i pensieri più nostalgici rivolti a situazioni e persone ormai irrecuperabilmente tramontate; ma per fortuna non mi sono fatta travolgere dal flusso malinconico e con intima soddisfazione mi sono destata dal quel torpore seducente, allontanandomene e continuando a guardare, consapevole dei cambiamenti, al mio presente e continuando a fare progetti per il mio domani, per le persone che amo, per il mio lavoro artistico, per la mia creatività, ma ben lontana dai pensieri catastrofici sul futuro espressi ormai da molti con compiaciuta negatività .…….  Perché se questo è il momento in cui ci viene imposto di scegliere fra ciò che è necessario e ciò che non lo è, io dico che necessario è essere positive ognuna di noi come può e con i mezzi che ha, in nome della propria personalità per le più egoiste, con l’aiuto concreto per chi è più altruista e generosa, ma anche con i più intimi silenzi o raccolti momenti di preghiera per chi ha fede. E se in alcuni momenti affiora la negatività, magari legata alla tristezza e al dolore per le persone che non ci sono più, ricordiamoci che per ognuna di esse ce ne sono state almeno tre che hanno fatto di tutto per salvarla. Messa in luce anche la nostra fragilità umana, voglio concludere questo frammento citando una frase di Alda Merini Ognuno di noi ha vissuto qualcosa che l’ha cambiato per sempre, ed io sono convinta che questo periodo sia l’occasione perché ciò avvenga e che sarà sicuramente in meglio!
 
Sara Farnocchia Restauratrice dei Beni Culturali
 
“la donna (…) ha fra le sue missioni quella di profumare la vita di bellezza e di eleganza” (Bice Viallet).
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Puzzle temporali
 
Il silenzio assordante ci teneva compagnia in lunghe e interminabili giornate, pensieri, riflessioni, parole, lettere, messaggi, telefonate e contatti con persone che non si sentivano da tempo erano tornati prepotenti.
Sospesi nel tempo, quasi inconsapevoli, come stravolti:” Ma che giorno è? Come sto? Come stiamo?”
“Ma il tempo si è fermato?”,  si, no,  rimettiamo le lancette dell’orologio e andiamo avanti.
Voglio tornare alla realtà e la mente vaga, torna a rimuginare, torna a ricordare, a ricercare quelle sensazioni, quegli abbracci, quei baci, quelle persone di un tempo, ad un amore di molti anni prima. 
Sogno, desiderio, amore, domande su come, e cosa sarebbe stato adesso. Bisogno di calore, di amicizia, di dialogo, di comunicare e di dire ciò che non si è detto. Paura, ansia, rabbia, oscurità che danzano dentro di noi in cerca di uscita. Cerchiamo la verità. Verità una e vera, trasparente e sincera, ora si capiscono tante cose che prima non si capivano e forse abbiamo imparato ad apprezzare e ad amare veramente.
Torniamo al tempo e ricominciamo da dove abbiamo interrotto.
 
Francesca Lombardi, Laureata in Lingue e letterature straniere, Firenze

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Alla mia bambina e a me bambina  di Simona di Maio

Passerà
Come passano le nuvole fuori la nostra finestra
Come passa questo pianto con un po' di dondolo e braccia e petto e carezza

Ti dico che passa come la polvere sui mobili il sabato delle pulizie 
Come i pensieri confusi quando li scrivi 
Come il freddo quando sei sotto la coperta 
Come l'attesa quando poi ci incontriamo

Passerà come l'ombra sotto il letto quando sorge il sole
Come la bua sul ginocchio quando la bacia la mamma

Ti giuro passerà puntuale come passa il treno carico carico di...
 
Passerà e lo dimenticheremo 
Come un sogno brutto 
Che scompare al mattino.​

13

AMORE TOTALE

Vorrei essere una foglia leggera sui rami d'autunno…
 Poter volare sulle ali del vento e 
raggiungerti come una carezza,

ma sono una pietra, 
scagliata contro la terra …

I meriggi umidi, 
plasmano i miei pensieri come fossero dardi di guerra...

 Raccolgo inerme
 quello che pare il frutto di questo nuovo mio divenire senza te ..

Ma l'autunno non durerà per sempre e 
potrò ancora inebriarmi di te ... 
guardare dietro il cristallo dei tuoi occhi selvaggi

In questa pausa vitale, 
mi accorgo che la mia anima é una casa trasparente, 
non vi sono muri ove dipingere i giorni, 
non vi sono letti dove riposare la notte,

La mia casa ha un'anima trasparente , 
non ci sono spiragli di luce o di oscuro 
non é varcata da nessuno. 
Il silenzio dell'attesa é un oblio permanente e 
l'anima invalicabile di questa terra ,ama perdersi nell'aria dell'assenza.

Poi un mattino 
dove la pace trova giaciglio, 
ritrovo la trasparenza di uno sguardo, d'acqua dipinto, 
e l'aria canta .. 
e la trasparenza assume le sembianze di un sogno.

In quel sogno ho dormito accanto a te tutta una notte . 
il buio ero io , 
respiro del tuo respiro . 
E scoprire di essere meno trasparenti . 
E soffrire di questa apparenza . 
E morire nell'attesa. 
E vivere ancora sperando. 
Ed accorgersi di sapere tutto solo adesso. 
E rimpiangere l'ignoranza che ci conserva nella pace.

E sapere che nulla sarà come prima. 
E capire che quel tutto che si aspetta nella vita esiste e sei TU.

Allora indossare quest'involucro di Fuoco
Credere che dalle ceneri si può rinascere ancora più forti.. 
Averci creduto abbastanza da morirne assuefatti... 
Questo sei tu mio amore
 ..mio libero amore ... 
Questa bramosia voluttuosa . 
Questa spuma d'infinito che mi pervade lasciandomi esterefatta.

Nei giorni più cupi .. 
rimpiango l'istante in cui, mio diletto, le nostre vie si unirono..

Io che d'amore i miei sensi perdevo ...tu ...i tuoi rami e le mie radici... 
Ossia quest'esistenza odiosa … 
questo valico d'edera selvatica.. 
Queste perle gettate ai porci …

L"inferno, in una parola…

E i frantumi raccolti in reliquie.. 
E la preghiera che il dopo arrivi adesso... o che non sia mai stato..

E pur ci ameremo sotto l'algida primavera della nuova vita …

Maria Luisa Macellaro la Franca Direttrice d'orchestra, scrittrice , pianista e compositrice

14

Tempo stopposo
 
vestita di indecisioni
giro da una stanza all'altra
cercando il bandolo
da dove iniziare
ad arrotolare il giorno
 
e intanto scorre, quello
avviluppandosi
imbrogliandosi
annodandosi
in mucchietti di minuti

tempo grigio stopposo 
eppure non riesco 
a non infilarci dentro le mani 
e contro ogni logica 
ne cerco il filo d'inizio

il vento baruffa
arruffa
bizzeffe di ore
arraffo infine
soltanto una nuvola

 arriva la sera
attorno alla nuvola
avvolge il giorno
senza nodi né imbrogli
tutto come sempre
 
guardando lo scorrere naturale
non mi resta che finirla di immaginare
eppure mi è parso, no, son sicura
la nuvola ridere e sghignazzare
per questo mio improbabile vaneggiare
 
devo essere razionale
sì, lo sarò
sì, un giorno di questi
o di quelli che verranno
​e strizzo l'occhio alla nuvola
 
rime storte volano intorno
piovono lettere e pensieri
rime baciate litigano tra di loro
si alza impetuoso 
​un mare di silenzio
 
maria carmela micciché

15

 LA FORZA MAGICA DEL SILENZIO
 
Sei nato in Asia, chissà come e dove. Sei arrivato piano piano, senza far troppo rumore, quasi in punta di piedi con un sorrisetto soddisfatto sulle labbra.
Il sorrisetto un poco sadico di chi è convinto di poter vincere e di possedere il potere assoluto. Così piccolo e con un nome quasi grazioso ed allo stesso tempo regale, sei arrivato per sconvolgere gli esseri umani.
Si, sconvolgere , non da nemico ma, appunto, da Messia biologico.
Prima che tu arrivassi anche qui da noi, la vita era normale, le settimane regolate, i calendari pieni di appuntamenti, i calendari vuoti senza appuntamenti, le vacanze in estate, le feste sante o meno, i voli oltre oceano, le navi immense nella Laguna di Venezia ed altrove in tutto il mondo.
Persone che si muovono solamente per poter dire a se stessi ma sopratutto ai loro vicini: mi sono mosso e non mi fermo mai. Per carità!, ci mancherebbe altro! È mio sacro dovere viaggiare e girare tutto il mondo! Perchè?..Perchè si fa così. Punto e basta!
Anche io ho sempre vissuto questi ritmi, in questi ritmi. Muoversi, fermarsi un poco per muoversi subito al più presto possibile. Correre dietro al tempo inesistente, perdendo l’istante più bello ed evidente. Anche io ho contribuito a rovinare Madre Natura senza rendermene pienamente conto.
Carriera, carriere, tutti dobbiamo fare carriera. Perché? La parola carriera non mi piace più. Anzi mi dà ansia e mi fa paura, mi sembra una valanga che viene incontro e che blocca.
Il tuo arrivo qui da noi, piccolo virus – sembra che ne voglia parlare con dolcezza, ma certo non è così – ha cambiato i miei giorni, le mie notti ed i miei pomeriggi. Per me era importante sentire parole, rumori, risate. Adesso tutto è silenzio. Silenzio che chiarifica i pensieri e le idee e mi costringe ad osservare lentamente e ad ascoltare in me stessa. Il cielo su di me è così azzurro che fa allargare lo sguardo. In lui abitano solamente gli esseri che hanno il diritto di abitarci e questi esseri cantano per noi. Adesso li possiamo ascoltare. L’aria è quasi pura e cristallina, le giornate passano in pace. Quando te ne andrai, e
dovrai andartene perché stai distruggendo vite ed esistenze, spero di sentire nonostante tutto, ancora la forza del silenzio che ci hai portato con violenza.
Vorrei fermare il mio essere a volte irrequieto e diventare contemplatrice.
Grata di aver potuto conoscere un cielo limpido ed un’aria pulita, di aver fatto lunghe telefonate con persone care e lontane, di aver scritto nuove canzoni e nuova musica, di aver trovato nuove e sconosciute ispirazioni, di aver scritto le mie prime poesie. Forse non saranno le ultime. Di aver sentito la mancanza dei miei figli e delle mie nuore perché questa mancanza mi farà provare la gioia di rivederli e di riabbracciarli.
Di poter essere grata della mia vita e di ciò che mi ha riservato. 
Non credere che adesso ti faccia la corte e ti inviti a rimanere a lungo sul nostro pianeta per purificarlo. Ci hai dato una lezione da non poco, ti sei strappato tante vite e stai facendo del male a tanta gente che teme per il proprio lavoro e la propria famiglia. Vai, vai via e portati dietro tutto il male che hai fatto.
Ma noi dobbiamo assolutamente capire la lezione ed inserirla nelle nostre nuove giornate. Che occasione per noi esseri umani! Io per mio conto, cercherò in ogni modo di prendere questa occasione. L’occasione di cambiare la confusione in calma, lo Stress in tranquillità, l’invidia in empatia e simpatia.
Fermarsi, fermarmi nell’istante e nella forza del silenzio. E se un Dio in veste di Madre natura, dovesse esistere, ti dirà forse „ Lascia perdere, ormai hanno capito.“
​
Cecilia Gagliardi, attrice

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Il canto della solitudine 

La solitudine è  un esperienza indispensabile d'incontro con se stessi, significa prendere la propria vita in mano e apre un varco per entrare in contatto con la nostra ricchezza interiore.
Io ho vissuto per 39 anni aggrappata ad un uomo (mio marito ) con cui condividevo; la vita intima, la vita sociale, la vita professionale e tutte le piccole cose del vissuto quotidiano.
I nostri caratteri erano agli antipodi: io sempre piena di dubbi ,ma allegra e positiva forse incosciente.. .lui  determinato, deciso, serio, sempre sicuro di sé. 
Insieme a lui ho avuto il coraggio di lanciarmi in esperienze professionali che per timidezza non avrei mai affrontato. Mi bastava il suo sguardo e la sua presenza per lanciarmi era il mio paracadute.
Se mi capitava di dover viaggiare per motivi di studio o di lavoro da sola per me era un finimondo non riuscivo a godere di nulla se non condividevo con lui...un paesaggio un tramonto un film e la sua assenza mi rendeva malinconica e a volte scostante.
Mi sentivo quasi dimezzata se non sentivo la sua voce e il suo sguardo che mi accarezzava.
Ma quando la malattia me lo portò  via è  stato come se il mondo si oscurasse e una polvere grigia bloccasse tutti i miei  movimenti e perfino la mia voce.
Ma per fortuna questo isolamento in cui mi ero rintanata mi ha lentamente portato a passare dall io condizionato a un io di libertà  e di rottura col passato e in questo viaggio ho ritrovato il contatto con me stessa che avevo un po' dissolto in questo spazio a due e ho ricominciato a vivere come persona intera non più  come parte di una coppia.

" Soltanto in solitudine riusciamo ad afferrare il sentimento del mondo reale e del suo canto.
Ovvero a capire il senso profondo della vita " (citazione ripresa da   Virginia Woolf)

di Eloisa 

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 SOGNO O REALTA'
 
Se c’è una cosa che mi ha sempre salvato, nei momenti difficili della mia vita, è l’immaginazione. Esatto, proprio lei, quella che per molto tempo ti fanno credere sia un difetto perché magari non ti fa concentrare a scuola. Quante volte avete sentito gli adulti rimproverare i più piccoli perché sempre con la testa fra le nuvole? Beh, per quanto riguarda me, devo ringraziare i miei genitori: mi hanno sempre permesso di sognare. Anzi, si sono occupati di nutrire e far sbocciare questa qualità con premura, come se si trattasse del più delicato dei virgulti. Forse si sono comportati così proprio perché consapevoli che non ero (e non sono) una bambina come gli altri: troppo taciturna, troppo schiva, troppo solitaria… Ma dotata di grande creatività, questo sì. È un fatto universalmente riconosciuto, nel bene e nel male.
Stiamo vivendo una situazione spaventosa: se accendi la Tv, le voci monocorde dei Tg ti colpiscono in pieno viso con statistiche delle vittime mietute da quest’affaretto piccolissimo eppure estremamente pericoloso. Coronavirus… Lo posso dire che è un nome che non gli si addice? Per tutti i disagi che sta causando ora come ora andrebbe rinominato, tipo, Panico-virus, Quarantena-virus, qualcosa del genere.
Io e la mia famiglia siamo costretti in casa da più di due settimane, impossibilitati ad uscire così come migliaia di altri italiani. Non sono potuta nemmeno andare a trovare mia nonna, che si è rotta un’anca esattamente due giorni prima dell’inizio del #Stateacasa, per paura di portarle qualcosa e farla ammalare. Si sa, noi giovani sembriamo essere per lo più asintomatici e quelli che ci rimettono sono gli anziani, le persone già deboli per via di malattie croniche o con difese immunitarie basse, i più piccolini. Insomma, stiamo parlando di un virus bastardo che se la prende con gli individui più delicate e fragili, senza guardare in faccia nessuno. Ancora non sappiamo per quanto dovremmo rimanere nelle nostre abitazioni ma, attrezzati con lezioni telematiche, libri e tanti giochi da tavolo, io e i miei cari siamo ancora in grado di passare il tempo senza scannarci, chiusi fra quattro mura. Forse.
Ho appena finito di vedere una puntata dell’ultima stagione di Vikings, la mia serie tv preferita in assoluto. Parla della storia (ovviamente romanzata) di Ragnar Lothbrok e della sua gloriosa discendenza, fieri vichinghi alla scoperta dell’Inghilterra. Me ne guarderei volentieri un’altra ma devo razionarmele, sono già alla sesta e per adesso sono disponibili solamente dieci puntate. Do un’occhiata a mia madre che sonnecchia sul divano con la bocca semiaperta. Mio padre sta lavorando nel suo studio, coordinando i suoi colleghi per far fronte all’emergenza. È un tecnico della prevenzione e ultimamente è perennemente in videoconferenza, a rispondere al cellulare che squilla ogni due secondi. Ha gli occhi gonfi e stanchi, la testa invasa da mille pensieri, i gesti rallentati dal sovraccarico di mansioni. Mia sorella invece è in camera sua, probabilmente collegata a Netflix o intenta a scorrere la home di Instagram o di Tik Tok.
Appoggio il capo al bracciolo del divano e stendo le gambe, socchiudendo appena gli occhi. Le immagini di battaglia si mischiano alle riflessioni sulla mattinata di videolezioni, con la wifi ballerina e il professore che discute della figura di Fedra nella commedia di Racine. Non ho in programma di addormentarmi, ho tante cose da fare. Dovrei studiare per l’appello primaverile, per esempio, in cui devo togliermi almeno due esami. Potrei anticiparmi e dare una mano a mamma, preparando qualcosina per cena. Il problema è che ultimamente soffro d’insonnia e la notte non riesco a dormire per più di una manciata di minuti filati. Rimango per ore a fissare il soffitto, cercando di resistere all’impellente bisogno di prendere in mano il cellulare. Mi rigiro, cambio posizione, nulla. Mi manca il calore confortante e rassicurante del mio ragazzo accanto a me, con cui convivo a Pisa da quattro anni in un monolocale poco lontano dalle nostre università. Non lo vedo da quasi un mese e la sua mancanza è una scheggia di ghiaccio nel cuore. Ruoto su un fianco e mi porto una mano sotto la guancia. Ed è in quel preciso istante che la mia immaginazione inizia a correre sui binari come un treno lanciato ad estrema velocità.
Mi ritrovo in un campo brullo, disseminato qua e là da qualche zolla di erba seccata dal gelo. Davanti a me, valli abbracciate dalla nebbia si alzano ad offuscarmi l’orizzonte e accolgono i raggi di un sole freddo, circondato da qualche nembo grigio. Indosso una pesante bardatura rinforzata e ai polsi ho delle protezioni disseminate di cinghie. Stringo un’ascia bipenne con mano ferma e nell’altra reggo uno scudo rotondo e pitturato di azzurro e bianco. Sono una shield-maiden e quella che si sta svolgendo davanti ai miei occhi è anche la mia battaglia. «Chiara, muoviti!» Mi grida Lagertha, abbattendo un nemico con un fendente ben piazzato. Vedo la protagonista del telefilm di poco fa abbattersi su un altro avversario con ferocia, da abile guerriera qual è. Io me la caverò a combattere? Se i videogiochi valgono, non dovrebbe andarmi male.
L’orda brulicante di uomini che attaccano il nostro insediamento si riversa nella radura a ritmo costante, sostituendo i compagni stanchi con altri freschi e carichi. Sono strani, questi vichinghi. Hanno la pelle verdognola e malaticcia, con strani rigonfiamenti a spargersi sulle gote e la fronte. Non sono ben attrezzati per la difesa e, ora che ci faccio caso,  non hanno nemmeno vere armi. Sì battono gettandosi sui miei amici e alitano loro in volto, sputando, leccandoli senza ritegno. Sono disgustata da quella vista, mi ricordano degli zombie anche se non manifestano nessun segno di decadimento fisico, tranne quella inquietante pelle verde. «Morte ai Coronavirus!» Strilla un ragazzo biondo con la barba incolta, cozzando contro tre esseri con rumore metallico. Con un colpo ne falcia due che cadono a terra all’istante, dissolvendosi in una polverina impalpabile. «Non respiratela!» Urla lui, coprendosi il volto nell’incavo del gomito e allontanandosi in fretta. Avvisto due guerrieri più anziani scivolare in ginocchio per il peso di alcune creature, che ormai ho identificato bene. Scatto in avanti con l’ascia tirata indietro, pronta per calarla su di loro e liberare i due vecchi che paiono incapaci di muoversi. Faccio vorticare la lama e questa affonda nelle carni dei mostri, che uggiolano e indietreggiano prima che possa caricarne un altro. Ritraggo appena in tempo la mia arma, per poi pulirne le estremità sul fogliame che ricopre il terreno. «Grazie…» Mormorano i due nonnini,  barcollando per lo sforzo. «Non c’è di che, figuriamoci!» Ribatto, offrendo loro il braccio come appiglio. «Andate a nascondervi là« Indicò un casolare poco distante con la porta spalancata. Dal vano, intravedo altre persone terrorizzate che si stringono le une con le altre. «Avete bisogno che vi accompagni? Ce la fate?» «Grazie cara, penso che ci riusciremo…» Sussurra l’anziana signora, trascinando via il marito che continua a fissare la guerriglia che si agita intorno a noi. Prendo di mira un gruppo di Coronavirusiani e li cancello letteralmente, scappando dal fumo che sprigionano i loro cadaveri. I muscoli iniziano a dolermi ma non voglio fermarmi, devo eliminarne il più possibile. Scorgo alcuni personaggi di Vikings impegnati nella battaglia che inzuppano le loro spade, asce, coltelli nei ventri di quegli assalitori mefitici e l’adrenalina torna a scorrermi nelle vene ancora più forte. Poi vedo mia sorella: sta scappando da un essere ripugnante che continua ad allungare le due lunghe dita verdi su di lei. Noto che non può combattere, la daga le balla sulla coscia mentre schiva i tentativi di acchiapparla del mostro. Sospetto che Emma sia ferita, sta tutta piegata in avanti e, anche dal punto in cui mi trovo, constato che ogni movimento le strappa un’acuta sofferenza. Parto alla carica digrignando i denti, roteando la bipenne con rabbia sull’abominio e spaccandogli la testa a metà. La polvere si solleva nell’aria e con una spallata faccio allontanare Emma, che rotola a terra. «Mi fa malissimo…» Rantola con sforzo notevole. I suoi occhi azzurri implorano aiuto; si tiene le mani sul petto, tossendo leggermente. «Via questa» ordino, facendole sfilare la pelliccia che le copre le spalle. Cerco di liberarla il più possibile, in modo che possa respirare più che può. D’altronde, questi bastardi colpiscono ai polmoni… «Fai respiri lunghi e profondi, per quanto puoi. Vedrai che ti sentirai meglio». Falcio un essere che ci si era avvicinato di soppiatto buttandomici addosso, allontanandolo da lei in modo che le sue esalazioni venefiche non la raggiungano. Da bianca latte com’era, sta riprendendo un po’ di colore e questo mi rincuora. I Coronavirusiani continuano a sciamare nei nostri confini, come api attirate dal miele. Difendo Emma da possibili attacchi, aiutata da un ragazzo alto e magro che non mi pare di conoscere, anche se qualcosa di familiare ce l’ha. Guardandogli le gambe, mi domando come sia anche soltanto in grado di stare in piedi. Invece brandisce un’ascia a due mani di dimensioni epiche e ci abbatte mostri come se fossero mosche. «Ci penso io a lei,» esclama, dandomi di gomito «non preoccuparti». Di solito non sono un tipo che si fida facilmente, anzi… Eppure sento che posso tranquillamente mettermi nelle sue mani. Do un’ultima occhiata a mia sorella che annuisce, esibendo un’espressione serena che mi strizza il cuore in una morsa dentuta. Mi ributto nella mischia ma, prima che possa mietere qualche vittima nell’esercito nemico, la sicurezza mi abbandona velocemente, facendo spazio ad un senso di vuoto disarmante. Lagertha urla a gran voce, richiamando la mia attenzione: «Ritirata! Andiamo via!» Giro su me stessa, confusa, cercando di comprendere. Gli altri vichinghi tossiscono convulsamente, c’è chi è a terra inerme e chi invece rantola alla ricerca di una via di fuga. Sono troppi… Rifletto, mentre la bipenne pende molle dalla mia mano. Non riusciremo mai a respingerli tutti.
Scuoto la testa ed emergo dal mio sogno ad occhi aperti. La voce di mia madre mi si rivolge con calore, invitandomi ad uscire sul terrazzo con lei. «C’è un bel sole oggi, perché sprecarlo?» «Io odio il sole» Commento, anche se la seguo senza ulteriori rimostranze.
Percepisco le braccia pesanti, come se avessi davvero maneggiato un’arma bianca fino a pochi istanti fa, nel disperato tentativo di debellare un Covid-19 molto differente da quello che si vede in laboratorio. I raggi ci accarezzano la pelle con tinte rossastre che infiammano i capelli di mia madre sulle ciocche tinte color mogano. È allungata accanto a me su una delle sgangherate sdraio sul balcone che dà in direzione di Orbetello, il nostro paesino in cui non mettiamo piede quasi da un mese. Alla mia sinistra, scorgo il mare con i suoi riflessi luccicanti. Incredibile: quando non devi passarci la domenica, è sempre calmo come una tavola da surf, nemmeno un’increspatura a riempirne di rughe la superfice. «Quest’estate, nessuno mi impedirà di trascorrere settimane intere in spiaggia. Se il tu babbo o la tu sorella non mi vogliono accompagnare e pure tu ti inventi qualche scusa, ci vado da sola» commenta mia madre e, anche se ho gli occhi chiusi adesso, la immagino incrociare le braccia. «Tranquilla, se andiamo toccata e fuga, che facciamo il bagno e veniamo subito via, lo sai che puoi contare su di me» le dico, nonostante non adori mettermi in costume. È questo il bello del mare toccata e fuga: arrivi e non fai nemmeno in tempo a toglierti di dosso i panni che sei già nell’acqua fresca a mulinare braccia e gambe. «Finalmente userai la ciambella a forma di cocomero che ti abbiamo regalato lo scorso compleanno…» Borbotta lei. Ha ragione, la scatola di cartone contenente il gonfiabile è ancora di sopra, in camera mia. L’estate passata abbiamo avuto poche occasioni di andare a fare un tuffo e le poche volte che l’afa ci ha convinto a prendere e partire, ho preferito godermi l’acqua in tutto il suo gelido abbraccio corroborante. «Certo, sempre che a giugno si possa mettere piede fuori casa…» «Ma sì, via! Credi davvero che la quarantena si prolungherà così tanto?» «Non mi ci far pensare, ma’» taglio corto. Il pensiero di trentacinque gradi all’ombra e quello della reclusione non voglio davvero farli combaciare. Torno ad osservare la laguna immobile e tiro un sospiro…
Sono su una distesa di sabbia bianca e soffice, più sottile di quella che abbiamo noi qui, in Feniglia o a Giannella. Sembra quasi borotalco per bambini e continuo a esaminarla nel pugno con interesse fino a quando mi sento pizzicare. «Che c’è, vuoi ancora stare a giocare con la sabbia?» La mia amica Beatrice sorride da sotto la falda del cappello di paglia che indossa con stile. Nonostante abbia gli occhiali da sole, vedo che sbircia l’acqua cristallina che mangia il bagnasciuga in lente ondate di risacca, quasi stanche. «Nono… È che ha una consistenza così strana…» «Beh è solo che non siamo abituate a questo tipo di mare». Si stiracchia e tende indietro le braccia, sopra la testa, trattenendo a stento uno sbadiglio. L’abbronzatura naturale le indora le spalle e le gambe, le schiarisce le punte dei capelli castani. Porta uno di quei costumi interi molto eleganti che si intrecciano in grovigli strani, a stampa floreale coloratissima. Do un’occhiata al mio due pezzi: nero, ovviamente, e praticamente vuoto sul davanti. «Finalmente ce l’abbiamo fatta a fare questa vacanza… Da quanto è che lo diciamo, di prenderci una pausa e concederci un viaggetto?» Trattengo a stento una smorfia: «Intendi prima o dopo la promessa fattaci alla laurea triennale?» Intorno a noi persone passeggiano placide sotto la luce palpitante, in molti hanno il cappello. Ci sono per lo più ragazzi giovani, anche se scorgo qualche famiglia barcamenarsi tra giocattoli di plastica, ombrelloni e coccodrilli e unicorni gonfiabili. I bambini ronzano intorno ai genitori, assillandoli con domande insistenti o offrendosi di dar loro una mano. <Avresti mai creduto che saremmo venute in un posto di mare? Io, no!» Esclama, spalmandosi un po’ di crema solare fra le mani e prendendo a passarsela sulle scapole. «Ma poi guardi l’offerta, scopri questi posti meravigliosi, noti il prezzo e… Come fai a lasciarti scappare l’occasione?» «Quoto sul fatto del prezzo» sottolineo, eterna tirchia. Non ho idea di quanto abbiamo speso per approdare su questa spiaggia caraibica di chissà quale angolo di mondo ma, se adesso sono qui con la mia migliore amica a concedermi un po’ di relax, deve essere stato un affarone. All’orizzonte, che è quasi più blu del mare stesso, nemmeno una nuvola chiazza la tavolozza di colori pastello che trionfa in tutto il suo splendore: l’azzurro del cielo, il verde della vegetazione che ricopre alcune montagnole in lontananza, il bianco panna dei gabbiani che volano in circolo sopra l’oceano. «Stasera dove andiamo?» Mi chiede Bea, accavallando le gambe e lasciandosi mollemente cadere sull’asciugamano. «Lo stai davvero chiedendo a me? Se tu l’organizzatrice, sai che il massimo di vita notturna, per me, è guardare serie tv e mangiare davanti al Pc». Ridacchia e fa un gesto con la mano, come se scacciasse una mosca invisibile. «Il locale di martedì non era niente male…» «Quello con la musica latino americana?» «Sì…» Faccio una pausa. So che adora ballare quanto io adori guardarla mentre si scatena, quindi le allungo un dito nelle costole, facendola sobbalzare. «Ci vuoi tornare?» «Non per forza, abbiamo tanti posti da provare…» «Pata… Latino americano?» La stuzzico, usando il nomignolo con il quale ci chiamiamo vicendevolmente. Le scocco un’occhiata eloquente e mi rendo ridicola con una mossa di bacino decisamente poco sensuale, il cui unico risultato è far scivolare cascatelle di sabbia sopra il mio telo a scacchi. Bea ride, poi piega la testa di lato, in silenzio e alla fine pigola: «Sì, vorrei tornarci se a te va. Però poi ti porto a quella serata emo di cui mi parlavi l’altro giorno!» «Ehm… È una serata metal in realtà. Sei sicura di voler sentire tutto il tempo gente che screamma?» «Sarà una cosa alternativa, via» conclude lei, con fare sbrigativo, sistemandosi il cappello. «Allora andata per il latino americano, metterò i miei non-tacchi migliori» faccio, ironica, e la mia amica mi tira una gomitata. «E prova quelle scarpe che abbiamo comprato… Dai…» «Tu hai voluto che le prendessi! Lo sai che non so camminare con i tacchi, non sono nel mio essere, non me li sento affini! È una questione molto delicata… Dai, lo sai che sembro uno stambecco quando li indosso» «E io ti insegnerò ad essere uno stambecco molto abile, allora» mi apostrofa lei.
È tutto tranquillo. Il mare, gli uccelli, i vocii sconclusionati dei turisti che ci circondano. Mi concentro su ogni singolo suono che sento, tentando di distinguerli uno ad uno. È rilassante e piacevole fin quando non percepisco che nell’aria cambia qualcosa. I gabbiani si zittiscono, come se qualcuno li avesse cancellati dallo sfondo. Le voci cambiano di tonalità… Da gioiose e concitate si riducono a sussurri carichi di tensione e qualcosa di molto simile alla paura. E il mare? Non odo più le onde rifrangersi sulla sabbia bagnata, soltanto una sorta di risucchio sibilante. Scatto seduta prima di rendermene conto e afferro Bea per un braccio, dandole uno strattone più forte di quanto avessi programmato. Ma data la gravità di quello che sta accadendo, sono sicura che non se la prenderà «Bea… Alzati». Si rizza a sedere all’istante e noto che ha già intuito la pericolosità della situazione. Magari in dormiveglia ha immaginato si trattasse soltanto del frutto della sua immaginazione ma, nel momento in cui l’ho toccata, ha reagito come una molla. Un uomo con in mano un paio di cesti di canapa intrecciata urla qualcosa in una lingua che non conosco e lascia andare le borse colme di frutta esotica fresca, che rotola sulla sabbia. È come se avesse dato un grido di allarme: tutti iniziano a strillare e a prepararsi in fretta e furia, qualcuno abbandona le sue cose sotto l’ombrellone che ormai non serve più, visto le nuvole che adesso incupiscono il cielo, e si lancia all’entrata della spiaggia. La gente è talmente tanta, ad accalcarsi al vano incorniciato da alcuni tronchi d’albero levigati dai flutti, che in un secondo si forma una grande massa brulicante di corpi accaldati e resi isterici dal terrore. Mi volto verso il mare: le onde si sono ritirate, come troppo timide per avanzare sulla battigia, e hanno fatto posto alla sabbia bagnata per diversi metri. «Vieni!» Mi dice Bea e mi afferra per il polso, mettendomi in piedi. Fa per andare verso l’ingresso anche lei ma, quando si rende conto della folla, si arresta e il suo sguardo prende a guizzare da me al mare «In queste località succede, lo avevo letto, ma non credevo che…». Siamo in una spiaggia libera quindi nessun bagnino sopraggiunge in nostro soccorso mentre lo tsunami avanza senza remore. Riesco a scorgere una gigantesca onda verdastra alzarsi all’orizzonte, coprendo le belle colline lussureggianti. Come è possibile sia arrivata tutta insieme, senza che ce ne accorgessimo? Le persone cominciano a gridare in preda al panico e, come in ogni situazione di pericolo, la legge della sopravvivenza prende il sopravvento. Un signore sulla cinquantina dà una gomitata sul naso ad un’anziana signora, facendola crollare a terra come un sacco di patate. Un gruppo di ventenni, muscolosi e di bell’aspetto, se ne fregano di far spazio ai più piccoli e bloccano l’entrata con i corpi massicci. Alcuni piangono, altri invocano aiuto in una lingua sconosciuta. «Guarda là!» Esclama Bea, puntando col dito alcuni individui che si sono arrangiati scavalcando delle palme nane e arbusti vari. Non deve essere semplice né piacevole ma forse è l’unica soluzione. Ai graffi creati dalle foglie ci penseremo dopo. Lei con due falcate raggiunge la barricata e mi tende la mano, in mia attesa. Non guarda l’orizzonte, come sto invece facendo io… Non riesco a farne a meno. I cavalloni adesso sono immani, superano in altezza i palazzi e i grattaceli che abbiamo visitato in città. La spuma decora le creste furiose con un colore malato che mi ricorda la bava intorno alla bocca di certe bestie idrofobe. Il suono che fanno è simile al boato di mille bocche di tuono che gemono e ululano in compagnia dei lampi. «Chiara!» Mi chiama di nuovo Beatrice che, nonostante tutto, non si è spazientita e aspetta che mi convinca a muovermi da lì. Anche se il mondo ci sta per crollare addosso è lì, ferma e immobile ad attendere. Le faccio un sorriso che mi costa uno sforzo doloroso e mi metto a correre verso di lei. Sono consapevole però che quelle abnormi colonne d’acqua dove pullula il virus che, per altre vie, sta ferendo l’umanità strappandole via pezzi di carne, non si fermerà finchè non ci avrà presi tutti con i suoi schizzi acidi e venefici.
Il cellulare vibra sul tavolino di plastica bianco sul quale l’ho appoggiato prima di stendermi. Cavolo, sono già le sette… Ho diversi messaggi ad invadermi la home: il mio amico Leo che mi consiglia un film, Beatrice che mi racconta come è andata la giornata, un paio di email del Dipartimento universitario. E poi il video di un riccio che mangia da un cucchiaino di legno. Me l’ha inviata Federico, il mio ragazzo. Non lo vedo da tanto tempo e mi manca tantissimo. All’inizio senza di lui mi sentivo persa, come se mi fossi addormentata al mare, non quello del sogno a occhi aperti ovviamente, a bordo di una ciambella e che la corrente mi stesse portando via. È difficile stare con una persona da quattro anni e mezzo e conviverci da tre e tutto d’un tratto non poter più abbracciarla, scherzarci, fare quelle piccole cose sottovalutate dai più come cucinare o rifare il letto insieme. Mi mancano i suoi occhioni dolci color cioccolato, con le ciglia lunghe, così espressivi che non c’è bisogno di chiedergli come sta per saperlo. Basta guardarlo per comprendere il suo stato d’animo. La sua sensibilità è qualcosa di così inconcepibilmente grande che pare strabordargli proprio dagli occhi, come se non ce la facesse a stare tutta dentro. È una persona buona, Federico, sempre a preoccuparsi degli altri e mai di sè. Pronto in ogni occasione a dare una mano come può, sacrificando i suoi desideri e le sue aspirazioni per far felice chi gli sta intorno. Gli ho sempre detto che questa cosa non è giusta, che anche lui ha diritto ad essere contento e che non può dare tutto se stesso a chiunque. Lui mi ha risposto che, se gli altri sono felici, allora lo è anche lui perché ha fatto del bene. Ho sempre avuto una paura tremenda che qualcuno potesse fargli del male in questo mondo, dove l’ignoranza e l’egoismo sembrano prevalere su ogni altro valore. Sento di doverlo proteggere, come se fosse una specie in via d’estinzione… E forse è così. Come faccio a farlo se non posso stare al suo fianco? Mentre guardo il video del riccio, uno dei suoi animali preferiti per il quale ha una sorta di venerazione, mi scappa un sorriso triste e percepisco gli occhi gonfiarmisi di lacrime. Vorrei tanto poterlo accarezzare, affondare le dita fra i suoi riccioli scuri e accoccolarmi fra le sue braccia. Alzo lo sguardo dallo schermo del cellulare e lo poso, riflettendo sulle due ultime divagazioni che la mia mente ha creato senza permesso. Mi stringo nelle spalle e tiro un sospiro, girandomi su un fianco, e mi porto le ginocchia al petto. Poi lascio andare le briglie dell’immaginazione. Che senso ha riuscire ad astrarsi dalle cose se gli scenari che partorisce il mio cervello, con i quali adombra la realtà, sono quasi sempre catastrofici o disturbanti? Finchè non potrò di nuovo strizzare il mio amore in un abbraccio asfissiante, tanto vale combattere così la malinconia. Chiudo gli occhi e mi focalizzo sulla sua immagine, riuscendo già ad udire la sua risata, buffa e starnazzante, in sottofondo.
 
CHIARA CIONCO
STUDENTESSA  UNIVERSITARIA

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                                                                                   Ho bisogno del mare perché m’insegna……
                                                                                                                                                    Pablo Neruda
 
Uomo libero, sempre tu amerai il mare!
 Il mare è il tuo specchio……
da Uomo e il mare di Charles Baudelaire
 
                                                                                                       ……I giorni futuri, i giorni oltre l’orizzonte,
                                                                                                       appartengono a uomini che potranno cambiare….
                                                                                                      
LA MENTE VIAGGIA E NON SI FERMA…… di Silvia Alicandro
 
In questo tempo che si è fermato per tutti, in cui il silenzio e la solitudine avvolgono ogni persona e ogni cosa, la mia mente non può fare a meno di viaggiare per ritrovare nei ricordi le stesse sensazioni che si provano quando si naviga in mare aperto di notte o all’alba di un nuovo giorno.
Amo il mare più di ogni altra cosa. Ho bisogno del suo suono, del suo profumo, della sua profondità, del suo orizzonte, del suo colore sia in estate che in inverno. Ho bisogno di sentirmi abbracciata e travolta dalle sue onde e di solcarle con una barca a vela che porta i miei occhi e la mia mente a spaziare su orizzonti infiniti.
Al mare ci sono nata e mi ha insegnato tanto: la preziosità della libertà, della bellezza, della calma interiore, del rispetto per l’immensità della Natura.
Ora in questo tempo sospeso ho timore di non poter rivedere il mare quest’estate! Ho paura di non poter salire di nuovo su una barca a vela e continuare i miei viaggi verso nuovi orizzonti.
Ma come scrive Hilde Domin “i giorni futuri, oltre all’orizzonte, appartengono a uomini che potranno cambiare” e aggiungo… se coglieranno l’occasione di questa situazione per cambiare qualcosa dentro e fuori di loro.
Abbiamo perso la capacità di guardare alle cose importanti, di difendere i più deboli, di proteggere i bambini…; siamo abituati ad accumulare e a non percepire i bisogni di chi ci sta vicino, oltre ai nostri.
Ora tutto, quello che possediamo non ha più valore e la nostra libertà di movimento è sospesa; la pandemia ci ha costretto a fermarci e fare a meno di tutto quello che fino ad ora ci sembrava indispensabile.
Dopo un primo stupore e disorientamento, come molti,  mi sono ritrovata ad avere tempo per stare solo con la mia famiglia, a cucinare e giocare insieme, a leggere un libro ad alta voce, a condividere pensieri e preoccupazioni, oltre a correre sul balcone per catturare un raggio di sole e osservare la Natura che si risveglia e che si sta riprendendo dopo tutte le vessazioni subite da un Uomo irriverente.
Nei miei momenti di solitudine e di silenzio mi chiedo come sostituiremo quello che ci è stato forzatamente o “fortunatamente” tolto. Penso ai ritmi di lavoro, alle giornate fuori casa, ai viaggi, alle cene con gli amici, agli abbracci con i nostri cari…..
E penso anche che sarà triste non poter dire addio alle persone che amiamo senza poterle salutare per l’ultima volta. Penso alla perdita  dei racconti delle generazioni che hanno vissuto già tante privazioni durante la loro infanzia o i tempi di guerra e penso a quelle attuali che fanno fatica ad accettarle per un tempo limitato. Penso alla rabbia che si sta scatenando nell’animo di tanti giovani che non possono fare più le stesse cose di sempre e ho paura che questa sfoci in odio tra popoli.
Penso alle famiglie che vivono nel conflitto e che potrebbero esacerbare queste situazioni, danneggiando ancor più la vita dei loro figli.
Seguo il mio pensiero e le mie sensazioni come il vento che gonfia o svuota le vele di una piccola barca in balia delle onde e provo timore e allo stesso tempo entusiasmo perché so che prima o poi arriveremo nel porto che ci darà rifugio e sollievo per le nostre fatiche.
Come Martin Luther King ”I have a dream…”:  sogno che gli uomini potenti si siederanno l’uno accanto all’altro, insieme al tavolo della fratellanza per trovare nuove soluzioni e superare le difficoltà che sicuramente dovremo affrontare dopo questa emergenza.
Sogno uomini e donne che insieme si adopereranno affinché si investa su ricerca, salute, scuola, cultura. Sogno Governi che si impegneranno affinché i più deboli non siano dimenticati e che lavoreranno per il bene comune evitando ed eliminando inutili guerre.
Il mondo non è e non sarà più lo stesso, sapremo renderlo migliore? Tutto dipende da ognuno di noi ed io continuo a sperare che insieme ci riusciremo e sapremo dare significato alle pagine di storia che stiamo vivendo. La rotta è segnata e presto navigheremo in acque tranquille.

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….e poi venne notte di Katiuscia Santoro
​

....e poi venne notte, profonda, che ci mette in ascolto di noi stessi e sei costretto ad ascoltarti e a stare con te, senza confini. Mura dove puoi nasconderti e ti senti l’energia del mondo entrare dentro e ti senti vulnerabile fragile e capisci veramente di essere un tutt’uno con l’universo. Che tutto quello che erano i tuoi concetti di potere, di cambiare la tua vita, di fare e di programmare non dipendono assolutamente da te, perché tu sei una piccola particella dell’universo. Forse quell’elemento che fin da piccola in qualche modo mi aveva sempre spaventato, “l’acqua,” oggi è l’unico modello da seguire.
Essere come l’acqua, trasformarsi ed essere ruscello, fiume o mare e rimanere così, cambiando solo il contenitore e seguendo il mondo come si trasforma.

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URBI ET ORBI di Maria Lucia Riccioli
 
fragile Dio che ti veli di pane
 
Signore in croce mentre il Cielo piove
pioggia e silenzio denso e surreale
 
siamo nelle Tue e nelle Sue mani,
Maria Salus Populi Romani

POESIA IN TEMPO DI PANDEMIA 
di Maria Lucia Riccioli

La peste degli untori manzoniana
novelle al tempo del Decamerone
Camus e la sua Tangeri infettata
le febbri perniciose del colera
malanni di latrine e di trincee
bacilli dagli archivi della Storia

Scriviamo al tempo del coronavirus
eppure noi non siamo mai cambiati
presuntuosi impauriti ignoranti
come il primo morto di nostra specie
in un giorno prima di tutti i giorni
al tempo della Terra senza nome

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La Crisalide di Sabrina Merlini

Quando penso a come mi sento, mi sento bene.
 Anche se gli spazi conosciuti e praticati da anni non riservano più alcuna sorpresa e il lento trascorrere delle giornate a volte mi accorcia il respiro per il tempo perduto.
Se devo usare una similitudine, allora dico che a volte mi immagino come un bruco abbozzolato e stretto dentro uno spazio angusto ma rassicurante.
Mi nutro (e il mio frigo ne sa qualcosa), riposo per sentirmi inutilmente forte e pronta e guardo, attraverso la tela, un paesaggio uguale ovattato e ridotto che mi restituisce il senso dell’attesa.
Cosa aspetto?
Il momento della fine, dell’inizio, la trasformazione.
Non lo sa il bruco forse, certo non lo so io che cosa ri- troverò una volta che il tempo non percepito tornerà ad essere scelta ragionata e consapevole.
Poi toccherà a me decidere, scegliere la direzione e sarà un momento accompagnato dalla paura verso ciò che potrebbe essermi diventato sconosciuto…
Non so se il bruco ha la percezione di sé, ma io aspetto, trepidante, di vedere le mie ali multicolori e bellissime.
                                                            

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Primavera rubata di Alessandra Bardi 
 
Sono tempi duri, molto duri.
Siamo te ed io insieme, come sempre, l'una il coraggio dell'altra. 
Abbiamo superato tanta paura. 
Si è abbattuta su di noi tanta pioggia. 
Ma noi sappiamo resistere alle intemperie. 
Saremo capaci di accettare e superare anche questi giorni come parte dell'esperienza. 
Vorrei poterti dire: non succederà niente, penserò io a te, non preoccuparti. 
Vorrei farti scudo, vorrei essere riparo sicuro, vorrei colmare i tuoi vuoti, eliminare le preoccupazioni e le delusioni che l'esistenza porta inevitabilmente con sé. 
Ma in questi giorni nulla può eliminare le distanze e la solitudine e questo senso di impotenza che ci opprime. 
Stiamo attraversando giorni complicati, in cui dobbiamo cercare il bello, trovare un  senso, anche se non è facile. 
Non sappiamo quanto tutto questo durerà e quanto ci cambierà. 
Ma una cosa sappiamo con certezza:
Il centro del nostro cuore ancora splende e la vita continuerà a stupirci. 
Attraverso il dolore e la gioia abbiamo imparato la lezione più importante che la vita possa offrirci: tutto fa parte di noi e non possiamo estraniarci dal resto. 
E con questa consapevolezza continueremo a ricercare la nostra felicità, con la certezza che la primavera che ci è stata negata, rifiorirà e tornerà più forte di prima e mai più niente e nessuno potrà rubarcela.

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"Sono Perplessa" 

Sinceramente il mio stile di vita non è granché cambiato, sono traduttrice, da anni sto tappata in casa, in questo momento poi per ironia della sorte traduco o meglio ritraduco per mio piacere poesie di Emily Dickinson, la cui autoreclusione ha fruttato risultati sublimi…

 
Vedo persino dei vantaggi. Hanno chiuso le chiese e gli stadi. Chissà quante menti torneranno a pensare, pensate? Il silenzio sulle strade. Il cielo è più blu e non è più rigato da scie chimiche, le acque tornano azzurre.
Ci sarebbe da ringraziare il Coronavirus, se non ci fossero le vittime, la segregazione forzata (che abbassa le difese immunitarie), il fallimento delle attività produttive interrotte. La vaccinazione di massa, l’Internet delle cose e la scuola online il rimedio?
 
Sinceramente, sono perplessa. Come si fa ad avere fiducia in istituzioni che hanno ignorato tante stragi silenziose? Perché tanto puntiglio per il batterio? Al punto da portare interi stati sul lastrico? Senza la chiusura l’umanità sarebbe stata sterminata? Del resto la nostra storia geologica è piena di estinzioni di massa, e per colpa nostra nel presente le specie si estinguono a ritmo serrato, nella generale indifferenza. Anche se ormai sappiamo che ogni piccola cosa ha la sua importanza per l’esistenza del Tutto (vedi l’effetto farfalla e la teoria del caos).
Sì, sono perplessa.
 
Emily Dickinson nella sua reclusione era affascinata da pochi temi: la vita e la morte, la natura, la poesia, il dubbio sull’esistenza del paradiso e sull’identità di Dio. Temi essenziali su cui non è mai arrivata a definizioni certe, a conclusioni. Anche lei fino alla fine perplessa.
 
[1017]
Morire – senza Morte
Vivere – senza Vita
Il più duro Miracolo
alla Fede proposto.

Mariagrazia Pelaia

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Frammento di Daniela Di Benedetto

Ci sono profumi che continuiamo a cercare tutta la vita e quando li ritroviamo ci regalano per un attimo la sensazione di essere a casa. Casa.

Ricordo quella volta, nel marzo di 14 anni fa: camminavo tra i viottoli impervi che percorrono la punta d’Africa piú protesa a sud. Ero accarezzata da intensi raggi di sole che ricordavano coccole lontane. Fu un attimo. Mi raggiunse una leggera folata di calda brezza marina che portava l’oro pungente sul viso: un profumo sottile, timido ma perseverante per chi sapeva riconoscerlo.
Lo inalai con forza finché non raggiunse abbracciandola la sede dei ricordi. Con uno scatto repentino impugnó il cuore ed ogni mia energia: era il profumo raro di quei cespugli rampicanti marini, apparentemente inutili, per nulla belli...una sorta di erba selvatica prima cicciotta e poi insecchita su pietre riarse dal sole, in cima alle scogliere tra le quali scendevo al mare nei piú bei meridi dell’anno.
Per la prima volta, in quei luoghi per me nuovi, lontano dal quello scorcio impervio di costa di fronte al porto di Palermo, percepivo quel profumo familiare: esattamente con la stessa intensità di allora.
In una frazione di secondo avevo costruito un ponte tra i due sud di due continenti e un odore aveva costruito attorno a me come dentro di me, un frammento di casa grande come il mare.
Il mare. Da quel meraviglioso balcone il nonno mi invitava a perdermi tra il riluccichio del sole sulla baia ancora in penombra e mi diceva che quello, quello in cui stavo crescendo e diventando donna, quello in cui potevo ancora arrogarmi il diritto di essere bambina, stretta guancia contro guancia a mamma e papà come in un “selfie” anni ‘70, proprio quello era il panorama piú bello del mondo.
La scoperta di un profumo antico é come un potente soffio sulle braci dei ricordi. Covano in silenzio e ad un tratto, riberberano in fiamme sprigionando tutta la propria potenza. Ci travolgono.
Successe di nuovo, mesi fa, prima di Natale, attendevo qualcosa che ancora non so, all’interno di un negozio....il mio sguardo cadde su una boccetta, la piú piccola, la meno colorata.
La presi, spruzzai qualche goccia del suo contenuto nell’aria, chiusi gli occhi e con uno scatto avanti bucai la nuvola che avevo generato con la punta del naso, la respirai come in una ripresa a rallentatore.
Quelle goccioline risalinoro le narici e materializzarono nel giro di un nulla nella mia mente quella lumia...la stessa lumia con il quale il nonno mi aspettava e mi accoglieva al nostro arrivo dopo il viaggio che ci separava.
Una lumia. In campagna se ne trovava un unico alberello, non sapevo esattamente dove. Il nonno ci aspettava andando a Butermini e raccogliendo uno di quei preziosi agrumi che poi adagiava in mezzo al tavolo della cucina. Quando arrivavo me la porgeva: “è per te!”.
Era per me quel piccolo tesoro: una piccola sfera giallo pallido, troppo poco rugosa per essere un limone. Un frutto di un profumo troppo gentile ed intenso per essere un qualunque altro agrume. Il nonno la sbucciava per me inonando il tinello di quel meraviglioso odore e ricavando dalla buccia sottile una lunga spirale che avrebbe poi lasciato appesa ad essiccare.
Il gusto della lumia era identico al suo profumo: leggero, fresco armonioso. Intriso di quelle poesie lunghe ed accorate che il nonno amava declamare. “Ma come fai a ricordarle tutte?”....”Quel che resta é armonia!”
Puntualmente solo pochi giorni dopo arrivava il momento del distacco e da qel balcone proteso a sud sulla valle dei templi entrava una manlinconica luce pomeridiana: una strana luce tra il biondo e il rame che annuncia l’avvicinarsi del tramonto e che ancora oggi, quando mi sorprende, mi provoca una stretta al cuore.
Lo ricordo ancora sull’altro balcone, quello rivolto a nord, quello della cucina, lanciare con un braccio un saluto forte e amorevole: “Tornate prima che potete!”
Le mattine della tarda primavera che precedevano l’estate ma che anticipavano un pezzetto di vacanza, le trascorrevo a casa della nonna. Amavo esplorare vecchi cassetti. Trovavo di tutto, sempre le stesse cose ma, per me, sempre nuove scoperte: vecchi libri di favole e di biologia, il profumo della carta ingiallita, vecchie bamboline, quaderni, temi e diari della mia mamma di almeno 30 anni prima, matite, colori, qualche vecchio disco.
Mi nascondevo tra la vecchia poltrona di pelle nera e le tende di organza di seta bianca, leggere e trasparenti che separavano me e il balcone della nonna con le sue fresie e le piante grasse della zia.
Il balcone dava sulla ville del settecento, quella i cui principi, si dice, erano stati ingannati una notte di 200 anni fa, perché i principi di Butera potessero tracciare il lungo viale che avrebbe condotto fino al mare.
In quell’angolo tra il balcone e la poltrona, avvolta nel velo bianco, avvolta nel velo di tenda bianca, aspettavo la folata di vento fresco che avrebbe gonfiato quelle tende leggere e profumate di fresie e tra le cui onde mi sarei persa.....fino a che il mio fantasticare non veniva puntualmente interrotto dalla voce della nonna che dalla cucina chiamava: ”Daniela......”.
Sono fortunata. Ho avuto un’infanzia ricca di luce, profumi, voci, ricordi: balconi protesi sulla bellezza della vita e sulla vita stessa, protesi su ricordi miei e di altri.
Piccoli tasselli di un mosaico che ancora cerca forma. Li sento avvicendarsi in una danza armoniosa in queste settimane e mesi di prigionia condizionata. Lascio che mi sfiorino e mi accarezzino ma non riesco a dar loro un nome. Li appoggio qui, aspettando che si riordinino da se.
Ritrovare un profumo ha per i ricordi la stessa potenza di una macchina del tempo e dello spazio: annulla ogni forma di distanza sconfinando tra geometrie di ogni sorta, associa tasselli di una immagine che forse solo con l’ultimo sospiro, un giorno avremo la forza di congiungere e in quel momento tutto avrà improvvisamente senso.

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La Fine di Un Tempo e La Sua Rosa di Giulia Aloia
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Silenzio assordante, assenza; strade deserte, o con sirene spiegate di ambulanze e forze dell’ordine. Paura. Trambusto nelle case, nei luoghi di lavoro, negli ospedali, bombe ad orologeria negli ambienti sterili, pianto, solitudine, morte. Fermento d’incoraggiamento e ritorno alla vita per i malati, dai balconi e alle finestre, e per quanti lottano con loro; fermento culturale di resistenza, di pezzi di popolo, affacciati con mascherine e guanti, distanziati, che si sbracciano e intonano canti, inni di pace, si danno coraggio invocando quella bistrattata normalità. Una nuova arte, questa, che si propaga al servizio dell’annientamento del male: un canto del cigno che si ripete nella speranza che inverta la sua narrazione e riesca ad armonizzare contrasti e contraddizioni. Un canto che spiazzi con una immagine nuova la visione  drammatica e regali ancora vita, sorrisi  e grida di   gioia.
          Inizia un nuovo tempo con in mano una rossa corolla, un’atipica rosa; villano, sembrava un galantuomo! Gli domando motivo del fiore e la risposta è: “Guardati attorno, sgrana gli occhi, pare eloquente ciò che tu cerchi..”. Pensierosa mi taccio,  non ha tutti i torti, quel che vedo o appare è sconvolgente, mette a nudo il mal’agire, il fallimento dell’uomo, una scossa visibile, per la distruzione già avviata del mondo. È lotta fratricida sull’immensa scacchiera, fra torri e pedoni, fra alfieri predoni, cavalli volanti espugnanti fortezze, fra fughe e abbandoni di troni. E su siffatta scacchiera, è la Regina a dominare la scena e a dare scacco al Re, è solo la rosa del Covid-19 che può cingersi il capo, raccogliendo la corona dell’ultimo destituito sovrano, e dare il via a un tempo nuovo.  La corolla si pavoneggia e il dubbio rimane: sa, o non conosce, il significato del gesto? Di certo non è dignità regale, ma solo inizio di morte e rovina, di ghirlande funebri su feretri e tombe, di scelte faticose  e isolamenti forzati. Di corse di corpi e di menti, fatte di andate e ritorni, di fuochi che si accendono, si sedano e poi riaffiorano, si spengono per poi rinascere. È  un tempo sospeso, un non tempo, che mette insieme gesti su gesti, fragilità e forza di uomini e donne, respiri affannosi aiutati da maschere, assenza di voci, vittorie e sconfitte. È un tempo strano che mette in fila solo parole, che non hanno pretese di  particolari stesure, un tempo che non guarda alla ricercatezza della scrittura, né al ritmo pulsante della frase, è solo un avanzare ora veloce, e ora lento, del tempo di prima, affollato di persone e di cose, che procede a tappe e si svuota. Intacca e decima la generazione di padri, di zii, cancella quella dei nonni facendone il suo fiore all’occhiello, lo fa senza chiedere appello e in modo inquietante in stanze asettiche e fredde, di già corpi inermi appesi a fili e boccagli. Lo fa in lunghe corsie di ospedali, fra il bianco accecante dei letti, fra i visi smunti di medici e personale specializzato, che pur mantenendo la eretta posizione portano addosso il cadaverico pallore, spossati dai tempi pressanti, stretti dalla fatica fisica e provati nello spirito. La rosa del Coronavirus fa strage di vite, cancella identità, volti, non si arresta di fronte alla perdita della memoria più antica, cancellata per sempre; è come essere in guerra, o di fronte a un nuovo olocausto, o in un nubifragio dove non è possibile fare la conta delle vittime mietute ed è miracolo ogni singolo risveglio.
          Ad essere sotto inchiesta, è sempre l’uomo che attentando sé stesso e gli spazi che condivide,  attenta gli altri e il mondo. Senza correttivo la storia d’amore fra l’uomo, gli altri esseri viventi e l’intero universo non può che avere esito negativo. Non ci sono più posti ai cimiteri di alcune grandi città, di alcune grandi nazioni ma solo fosse comuni; e i corpi sono lande desolate su cui si spegnerà anche il sole. Specialmente sugli ultimi, figli già di nessuno, immersi, ora più di prima, in quella povertà affettiva che reclama, muta e in solitudine, attenzione . Immagini tristi, lutti, accompagneranno le future generazioni e segneranno il loro passo; la  speranza è che esse agiscano con l’intento di voler restituire dignità alle persone che non sono più fra noi, amore alla terra, rispetto per l’acqua, l’aria e il cielo oltraggiati, in modo che tutti gli esseri viventi e il  Pianeta possano riprendere e continuare a respirare.
          Non smettiamo di riflettere su ciò che stiamo vivendo, sul tempo ch’è appena alle spalle, in cui tutto scorreva veloce, in cui eravamo attorniati da amici e parenti, ai quali era difficile prestare attenzione  perché mancava- la materia prima- cioè il tempo stesso; e non smettiamo di riflettere sul nuovo tempo, quello vorticoso che ha animato stazioni ferroviarie e autolinee e che probabilmente continuerà ad animare, con l’acuirsi della crisi, luoghi, già presi d’assalto, come i centri commerciali. Teniamo alta considerazione degli ambienti ospedalieri che hanno subìto lo stravolgimento di ogni protocollo con il precipitarsi della pandemia, la tempestività d’intervento che il Virus si porta dietro e la pacificazione dolorosa con gli addii. Pensiamo al tempo lento e resiliente delle famiglie al chiuso delle case, a quello pastorale delle chiese vuote a tu per Tu con la Croce, ma in connessione e vicinanza col mondo, a quello delle organizzazioni di volontariato che non si sono mai fermate, al servizio pubblico di Poste, farmacie e Comuni.
          Ora che il tempo sopravanza, a mancare è il materiale umano, mancano persino i battibecchi e le attese delle code. In un mondo di muri, di acque che fluiscono e dividono è stata una corolla, fatta di piccoli garofani o, se preferite, di fior di buganvillea rosso-fucsia a farci fare capitombolo, a tenerci larghi, nascosti alla vista degli altri, mentre moltitudini di voci gridano dall’eremo profondo: “Fateci spazio, regalateci un pezzetto di cielo, il buio ci opprime!”, e ancora:  “Rifuggir vogliamo da accumuli di bare di noci, o da fosse comuni, da fiamme e scintille di forni crematori.”. L’esilio dei  morti sarà sempre un urlo che non potrà lasciare indifferenti. Una realtà che non si dimentica, destinata a vivere un eterno presente per l’ultimo dei viaggi individuali da compiere, fuori dal territorio della patria dell’anima, lontano dagli affetti, dal sentire intimo degli ideali e dell’ultimo riposo, dopo la lotta estenuante alla malattia, in una  “normalità  estrema” che impone di scendere nelle tenebre e vivere quell’unica possibile realtà. E tuttavia, anche in questo potrebbe accendersi il lume della speranza.
          La guerra di oggi  ha messo sotto assedio  il volto del mondo e l’uomo vacilla, non è più in grado di riconoscere la vera formula della vita, poiché vive una sorta di straniamento dell’essere; solo l’impegno potrà essere la risposta per far tornare ad imparare a vivere. Siamo tutti viandanti nel vento, pieni di paura, naviganti senza rotta e probabili all’approdo. È triste accorgersi che forse, proprio quando avevamo imparato ad amare, a non odiare, o magari a perdonare, se non è possibile più abbracciarsi sarebbe meglio addormentarsi e magari non svegliarsi. Oggi, invece, è un tempo nuovo, è il tempo della cura e del risveglio di ciò che stava morendo dentro di noi. È il tempo di una nuova felicità casalinga che va rispolverata, un tempo dell’anima da riconoscere e apprezzare. Teniamo vivi i muri che ci custodiscono anche se li sentiamo quasi addosso. È nella speranza di ogni giorno che nasce la bellezza della vita, è in questo dialogo a distanza, che non è un semplice rifugio, ma reca il buono del cuore e del pensiero che è in noi.
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