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Frammenti
Frammento di Daniela Di Benedetto

Ci sono profumi che continuiamo a cercare tutta la vita e quando li ritroviamo ci regalano per un attimo la sensazione di essere a casa. Casa.

Ricordo quella volta, nel marzo di 14 anni fa: camminavo tra i viottoli impervi che percorrono la punta d’Africa piú protesa a sud. Ero accarezzata da intensi raggi di sole che ricordavano coccole lontane. Fu un attimo. Mi raggiunse una leggera folata di calda brezza marina che portava l’oro pungente sul viso: un profumo sottile, timido ma perseverante per chi sapeva riconoscerlo.
Lo inalai con forza finché non raggiunse abbracciandola la sede dei ricordi. Con uno scatto repentino impugnó il cuore ed ogni mia energia: era il profumo raro di quei cespugli rampicanti marini, apparentemente inutili, per nulla belli...una sorta di erba selvatica prima cicciotta e poi insecchita su pietre riarse dal sole, in cima alle scogliere tra le quali scendevo al mare nei piú bei meridi dell’anno.
Per la prima volta, in quei luoghi per me nuovi, lontano dal quello scorcio impervio di costa di fronte al porto di Palermo, percepivo quel profumo familiare: esattamente con la stessa intensità di allora.
In una frazione di secondo avevo costruito un ponte tra i due sud di due continenti e un odore aveva costruito attorno a me come dentro di me, un frammento di casa grande come il mare.
Il mare. Da quel meraviglioso balcone il nonno mi invitava a perdermi tra il riluccichio del sole sulla baia ancora in penombra e mi diceva che quello, quello in cui stavo crescendo e diventando donna, quello in cui potevo ancora arrogarmi il diritto di essere bambina, stretta guancia contro guancia a mamma e papà come in un “selfie” anni ‘70, proprio quello era il panorama piú bello del mondo.
La scoperta di un profumo antico é come un potente soffio sulle braci dei ricordi. Covano in silenzio e ad un tratto, riberberano in fiamme sprigionando tutta la propria potenza. Ci travolgono.
Successe di nuovo, mesi fa, prima di Natale, attendevo qualcosa che ancora non so, all’interno di un negozio....il mio sguardo cadde su una boccetta, la piú piccola, la meno colorata.
La presi, spruzzai qualche goccia del suo contenuto nell’aria, chiusi gli occhi e con uno scatto avanti bucai la nuvola che avevo generato con la punta del naso, la respirai come in una ripresa a rallentatore.
Quelle goccioline risalinoro le narici e materializzarono nel giro di un nulla nella mia mente quella lumia...la stessa lumia con il quale il nonno mi aspettava e mi accoglieva al nostro arrivo dopo il viaggio che ci separava.
Una lumia. In campagna se ne trovava un unico alberello, non sapevo esattamente dove. Il nonno ci aspettava andando a Butermini e raccogliendo uno di quei preziosi agrumi che poi adagiava in mezzo al tavolo della cucina. Quando arrivavo me la porgeva: “è per te!”.
Era per me quel piccolo tesoro: una piccola sfera giallo pallido, troppo poco rugosa per essere un limone. Un frutto di un profumo troppo gentile ed intenso per essere un qualunque altro agrume. Il nonno la sbucciava per me inonando il tinello di quel meraviglioso odore e ricavando dalla buccia sottile una lunga spirale che avrebbe poi lasciato appesa ad essiccare.
Il gusto della lumia era identico al suo profumo: leggero, fresco armonioso. Intriso di quelle poesie lunghe ed accorate che il nonno amava declamare. “Ma come fai a ricordarle tutte?”....”Quel che resta é armonia!”
Puntualmente solo pochi giorni dopo arrivava il momento del distacco e da qel balcone proteso a sud sulla valle dei templi entrava una manlinconica luce pomeridiana: una strana luce tra il biondo e il rame che annuncia l’avvicinarsi del tramonto e che ancora oggi, quando mi sorprende, mi provoca una stretta al cuore.
Lo ricordo ancora sull’altro balcone, quello rivolto a nord, quello della cucina, lanciare con un braccio un saluto forte e amorevole: “Tornate prima che potete!”
Le mattine della tarda primavera che precedevano l’estate ma che anticipavano un pezzetto di vacanza, le trascorrevo a casa della nonna. Amavo esplorare vecchi cassetti. Trovavo di tutto, sempre le stesse cose ma, per me, sempre nuove scoperte: vecchi libri di favole e di biologia, il profumo della carta ingiallita, vecchie bamboline, quaderni, temi e diari della mia mamma di almeno 30 anni prima, matite, colori, qualche vecchio disco.
Mi nascondevo tra la vecchia poltrona di pelle nera e le tende di organza di seta bianca, leggere e trasparenti che separavano me e il balcone della nonna con le sue fresie e le piante grasse della zia.
Il balcone dava sulla ville del settecento, quella i cui principi, si dice, erano stati ingannati una notte di 200 anni fa, perché i principi di Butera potessero tracciare il lungo viale che avrebbe condotto fino al mare.
In quell’angolo tra il balcone e la poltrona, avvolta nel velo bianco, avvolta nel velo di tenda bianca, aspettavo la folata di vento fresco che avrebbe gonfiato quelle tende leggere e profumate di fresie e tra le cui onde mi sarei persa.....fino a che il mio fantasticare non veniva puntualmente interrotto dalla voce della nonna che dalla cucina chiamava: ”Daniela......”.
Sono fortunata. Ho avuto un’infanzia ricca di luce, profumi, voci, ricordi: balconi protesi sulla bellezza della vita e sulla vita stessa, protesi su ricordi miei e di altri.
Piccoli tasselli di un mosaico che ancora cerca forma. Li sento avvicendarsi in una danza armoniosa in queste settimane e mesi di prigionia condizionata. Lascio che mi sfiorino e mi accarezzino ma non riesco a dar loro un nome. Li appoggio qui, aspettando che si riordinino da se.
Ritrovare un profumo ha per i ricordi la stessa potenza di una macchina del tempo e dello spazio: annulla ogni forma di distanza sconfinando tra geometrie di ogni sorta, associa tasselli di una immagine che forse solo con l’ultimo sospiro, un giorno avremo la forza di congiungere e in quel momento tutto avrà improvvisamente senso.
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